Cultura e spettacolo

Il regista racconta le vicende di un gruppo di rifugiati siriani in un piccolo paese inglese
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"Quando guardo attraverso questa fotocamera, scelgo di vedere qualche speranza". In ‘The old oak’, la vecchia quercia, queste parole le pronuncia Yari, una giovane fotografa siriana, ma è impossibile non sentire l’eco di Ken Loach, 87 anni, che anche in questo film, il 28esimo, conferma come la sua rabbia nei confronti delle ingiustizie del mondo sia ancora molto lontana dallo spegnersi.

L'Old Oak del titolo è il pub di un villaggio operaio in declino a due passi dal mare nella contea di Durham, vicino a Newcastle, un tempo zona di miniere e minatori che negli anni Ottanta ingaggiarono un durissimo braccio di ferro con Margaret Thatcher. Perdendolo. La memoria di quel periodo è conservata in vecchie istantanee nel retrobottega del locale, inutilizzato da anni, che di quelle lotte è una sorta di santuario vivente, dove campeggia il motto ‘Quando mangi insieme resti insieme’ riferito ai pasti un tempo preparati per i lavoratori in sciopero e le loro famiglie mentre in paese tutti vivevano della miniera.

In quel villaggio si insediano alcune famiglie di profughi siriani che determinano tra gli abitanti una reazione facilmente immaginabile dal momento che è più facile sfogare problemi e frustrazioni con chi sta peggio di noi piuttosto che prendersela con coloro che ci hanno ridotti quasi allo stremo. Un uomo però fa eccezione: è TJ Ballantain, il proprietario di quel vecchio pub fatiscente. Nella vita ha avuto la sua parte di problemi ma non ha dimenticato gli insegnamenti dei genitori e soprattutto di quella frase appesa nel suo locale. È lui che fa amicizia con la più intraprendente delle donne siriane arrivate nel villaggio che parla inglese ed è appassionata di fotografia. E sarà lui, vincendo le tante resistenze e sfidando vecchi o presunti amici alla ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare le proprie insoddisfazioni, a fare qualcosa di concreto riaprendo il retrobottega del pub per offrire pasti gratuiti sia ai siriani che ai locali che se la passano male nella loro comunità.

Ed è proprio comunità la parola chiave di ‘The Old Oak’ che è un film su un razzismo che ha poco a che fare con l’ideologia, il colore della pelle o il linguaggio di qualcuno ma -se mai – con quanti soldi hai nel portafoglio. Come aveva fatto con ‘Jimmy's Hall’ nel 2014 Loach racconta la storia di un luogo di ritrovo e di cosa può significare per chi lo frequenta e collaborando come sempre con lo sceneggiatore Paul Laverty scrive un'appassionata risposta al decadimento della compassione nazionale e alle politiche xenofobe sull'immigrazione dell'attuale governo conservatore britannico. Quello che aggiunge a questo scenario è un'intimità naturale che va oltre i problemi per mettere sul tavolo qualcosa di umano ed emotivo. Migliore quando mostra invece di raccontare lasciando che le situazioni parlino da sole il regista inglese non solo rappresenta l'incontro di due diverse collettività ma offre anche un coro di voci individuali che incarnano ciascuna le proprie contraddizioni. 

Quello che Loach e Laverty raccontano è come ormai da quarant'anni il tessuto sociale si sia disintegrato sotto la spinta dell'economia liberale e parole come umanità e solidarietà si siano sgretolate anche e soprattutto in quei luoghi dove una volta erano centrali. Il film racchiude tutte le assurde realtà della nostra contemporaneità, pure quelle con cui tanti di noi si scontrano ogni giorno: guerre (anche tra poveri), problemi economici, frustrazioni, dolori privati ed egoismo e tuttavia ‘The Old Oak’ ci spiega che mantenere un barlume di speranza è l'unico modo per andare avanti e migliorare le cose. Ci dice che intorno a un tavolo, condividendo lo stesso cibo, ci si può conoscere e capire. Certo, ci sarà sempre chi non vorrà farlo, ma una volta stabilito quel legame, spezzarlo sarà difficile. E se il legame non si spezza, se la comunità si ricostruisce, c'è speranza per il futuro. 

Insomma, un appello alla solidarietà, non alla carità dal momento che le persone non vogliono essere compatite, vogliono sentirsi incluse, sedersi in un pub che sta a malapena in piedi e aspettare un altro giorno che potrà portare ancora disperazione ma – perché no? – anche una nuova speranza. E vogliono farlo insieme. Nel mondo di Loach, che come la vecchia quercia del titolo rimane fermo, irremovibile e fedele alle sue radici, non si tratta di affermare che va tutto bene, si tratta di assicurarsi che quando non è così è importante che tu non sia completamente solo. Perché un dolore condiviso è un dolore dimezzato.