Le hanno ordinato che nessuno deve voltare le spalle al re ma lei lo fa comunque. L’hanno avvertita che non bisogna guardare Luigi XV direttamente negli occhi ma ignora anche questo consiglio dei cortigiani di Versailles incrociando con aria di sfida lo sguardo del sovrano. Jeanne Bécu non era il tipo di donna da fare come le si chiedeva. Figlia illegittima di un monaco e di una cuoca, ha imparato le buone maniere e ricevuto un’ottima educazione grazie all'aiuto di un aristocratico per il quale lavorava la madre che l’aveva presa sotto la sua ala. Nulla di strano dunque che quando approda a Parigi, “la capitale di ogni speranza e desiderio”, impari rapidamente le vie del libertinaggio (e a “essere una donna pur rimanendo libera”) costruendosi una solida reputazione di abile cortigiana. Quando incontra il tranquillo Count du Barry conclude con lui un affare: userà il suo fascino per salire la scala di amanti sempre più ricchi, aiutando a sostenerne economicamente la famiglia. Una via che la porterà a diventare ben presto la favorita del re.
‘Jeanne du Barry’ è il film che nel maggio scorso ha aperto fuori concorso il Festival di Cannes. Lo firma - assumendo anche il ruolo della protagonista - Maiwenn, controversa regista francese che si è avvicinata a questo singolare personaggio, già ispirazione per molti libri, altri film e perfino un musical, dopo averlo visto come carattere secondario in ‘Maria Antonietta’ di Sofia Coppola (lo interpretava Asia Argento rendendola una malvagia intrigante) e averne poi studiato e approfondito il carattere. La maggior parte degli uomini - e delle donne - la considerava una puttana ignorante mentre lei ce la descrive come una persona diversa: amante del divertimento, amorevole e leale che tra l’essere una serva e una prostituta trova i migliori vantaggi nella seconda occupazione. Generosa e con i piedi per terra, Jeanne è autentica in un mondo di artificio. Ciò che lei e il Re condividono sono sani appetiti sessuali e il piacere impenitente di stare l'uno in compagnia dell'altro, innamorandosi e capovolgendo la politica precaria di Versailles. Questo rapporto riassume l'essenza di un film che ci immerge in un mondo governato da rituali ridicoli, dove i reali riescono a malapena a nascondere i loro lati più brutti dietro l'aspetto della tradizione e dello splendore.
Sulla carta, ‘Jeanne Du Barry’ è una storia avvincente che può richiamare alla memoria echi di ‘Barry Lyndon’ (per carità, fatte le debite proporzioni) e ‘La favorita’ con la loro stordente decadenza, ma mentre entrambi questi film potevano contare su protagonisti multistrato e dinamiche intriganti, qui tutto è bloccato da una sceneggiatura che non si capisce che strada abbia voluto prendere con una caratterizzazione imperfetta che fa sentire più di un personaggio unidimensionale mentre i momenti più emotivi finiscono per scivolare nel melodramma. Il che è un peccato, perché Johnny Depp è abbastanza convincente nel mostrarci i molti lati di un uomo che può essere pieno di energia infantile e un minuto dopo gravato da tutto il dolore e la rabbia repressa del mondo ma ancora capace di affetto e compassione. E tutto sommato anche Maïwenn è credibile riuscendo a infondere al suo personaggio nonostante i tanti problemi di scrittura la tristezza onnipresente e persistente di una giovane donna lasciata con due scelte soltanto: la Bibbia o la camera da letto.
I film di questa regista tendono sempre ad essere divisivi: quelli riusciti (vedi ‘Polisse’) sprigionano una grande energia, gli altri diventano esagerati selfie di cui lei è l’unica stella. A questi appartiene ‘Jeanne du Barry’ mirando in alto ma percorrendo invece una strada che incrocia un ‘Pretty woman’ postmoderno con una ‘Cenerentola’ disneyana da cui ha clonato integralmente le sorellastre nelle figlie del re che disprezzano Jeanne come bestie esagerate senza farne mistero. Tutto questo fa sì che una storia vera suoni comunque fiabesca trasformando il gala di apertura del Festival di Cannes di quest'anno in un pezzo d'epoca stantio e pieno di spifferi solo in parte consapevole della propria vanità.
IL COMMENTO
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