Cultura e spettacolo

Un film di Luc Besson energico e folle su un outsider sociale cui piace travestirsi
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VENEZIA - Se sarà sicuramente vero come viene sottolineato nei titoli di coda che nessun animale è stato maltrattato, è anche vero che in 'Dogman' molte persone vengono sbranate, morsicate, uccise e via dicendo. Ciò nonostante è tra i film meno violenti che Luc Besson ha girato finora. Piuttosto, se di violenza vogliamo parlare è prevalentemente di tipo domestico e psicologico, in una storia che segue un ragazzo i cui traumi infantili lo trasformano in un uomo paralizzato che governa un piccolo e feroce esercito di cuccioli a lui obbedienti, fedeli alleati nella sua lotta contro l’ingiustizia.

Si parte con Doug (un eccellente Caleb Landry Jones che fin d’ora si candida alla Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile) a colloquio con una psichiatra criminale mentre è in prigione. A lei decide di raccontare la sua orribile storia che ci viene mostrata attraverso flashback, a partire da quando – ragazzino – con la complicità del fratello dopo che la madre incinta se n’è andata per non subire le violenze del marito e dare una vita migliore al figlio che aspetta, viene rinchiuso dal padre che addestrava cani da combattimento nella gabbia in cui venivano tenuti.

Colpevole di aver dato loro da mangiare, un giorno il genitore gli spara a bruciapelo paralizzandolo dalla vita in giù. Inizia così la lunga e dolorosa trasformazione di Doug in Dogman, un emarginato sociale che esercita un potere simile a quello del pifferaio magico sui cani di cui si prende cura, addestrandoli, tra le altre cose, a portare a termine rapine in case benestanti del quartiere mentre si esibisce settimanalmente in un locale di drag queen cantando canzoni di Edith Piaf e Marlene Dietrich. Nel mezzo c’è anche una storia d'amore platonica con una bibliotecaria gentile che lo introduce al mondo di Shakespeare. Sarà la sua bontà di fondo, nel voler aiutare una donna taglieggiata da un gangster locale, El Verdugo (il boia), a far precipitare la situazione e portarlo in carcere.

‘Dogman’ è un film turbolento e folle, costantemente nervoso costantemente energico, che salta selvaggiamente avanti e indietro tra i generi: dramma psicologico ma allo stesso tempo anche thriller, horror, neo-noir, commedia d'azione e qua e là anche romantica dove vengono affrontate questioni di identità, appartenenza, violenza domestica e fallimento dello stato sociale. Quello che è certo è che ci offre un lato diverso del regista rispetto a ciò che abbiamo visto negli ultimi quarant’anni, più tenero e tragico nello stesso tempo. Scenario e atmosfere ricordano il ‘Joker’ di Todd Haynes interpretato da Joaquim Phoenix, basato come quello su un outsider sociale con una gioventù traumatica cui piace travestirsi e infrangere la legge.

E anche se il risultato non è esattamente sofisticato – un'etichetta che, in ogni caso, non è mai stata applicabile al lavoro di Besson – c'è qualcosa di sincero nel modo in cui il regista francese descrive la sofferenza profonda e molto cristiana di Doug, un uomo il cui desiderio di salvezza si scontra con una divinità per la quale non riesce a conciliare i suoi sentimenti. Un personaggio cui conferisce molte qualità – compassione, gentilezza, resilienza, autoironia e una certa nobiltà di carattere – oltre ad un fortissimo anelito a costruirsi una famiglia, uno stare insieme non di facciata. Non necessariamente con gli umani. Vanno benissimo anche i cani, perché – come recita la citazione di Alphonse de Lamartine che apre il film- “Quando l’uomo è nei guai, Dio gli manda un cane”.