
Giorgia Meloni, la premier italiana, ha un grosso problema: la qualità di molte persone che le stanno intorno, occupando in alcuni casi ruoli di primo piano. Prendiamo Adolfo Urso, ministro del Made in Italy, che una volta si sarebbe chiamato dicastero delle Attività produttive: ci vorrebbe un bello sforzo di fantasia per assegnargli anche un cinque in pagella. Le sue performance valgono un quattro e persino un tre.
Sono troppo duro? Dunque: il “nostro” va in Puglia, per la campagna elettorale delle regionali, e se ne esce affermando che lì avrà sede una delle gigafactory europee legate all’intelligenza artificiale. Spiega che nel piano rientra pure Genova, dandogli così più forza, fra l’altro? Macché. Nel discorso di Urso conta solo la Puglia, perché pugliesi sono i voti dei quali la sua parte politica, Fratelli d’Italia, è all’inseguimento. Ma si può?
No, che non si può. Difatti subito scoppia il casino. E il piddino Lorenzo Basso, non un pericoloso bolscevico, posso giurarlo conoscendolo, lancia l’allarme. Della serie: Genova, già penalizzata per i 16 milioni tagliati alla ricerca dell’Iit, ora finisce fuori pure da questo progetto. Poi Roberto Cingolani, numero uno di Leonardo, e la leader di Noi Moderati, Ilaria Cavo, spiegano che no, Genova non ha da temere.
In attesa di verifica, restano le terribili parole del ministro Urso. Il quale, tanto per essere chiari, sulla Superba è recidivo. Prima ha tenuto a bagnomaria Piaggio aero per un paio d’anni, ripetendo che tutto era pronto quando di pronto non c’era nulla, salvo arrivare infine alla cessione alla turca Baykar con molte cose ancora da chiarire. Poi s’è fatto scadere tutti i termini per la gara sulla privatizzazione dell’ex Ilva, dopo aver dissertato di un piano che prevedeva anche un nuovo forno elettrico per Genova. Non se n’è fatto nulla, of course, e ora vige il silenzio più assordante.
Cara Meloni, diciamoci la verità: il Paese intero vorrebbe un ministro che fosse un tantinello più sincero (o bisogna pensare che sulla gigafactory abbia detto il vero?), più pragmatico, più competente. E che si abbandonasse meno alle stupidaggini. Comunque, non si può negare che la responsabilità finale sia di chi Urso ce l’ha messo in quel posto, vale a dire proprio lei, signora premier.
Il problema è che questi tipi sono pure presuntuosi. Nel senso che Meloni ha pagato il prezzo della propria riconoscenza (potremmo metterci dentro pure il ministro-cognato Lollobrigida, il sottosegretario Delmastro, il parlamentare Pozzolo, coinvolto nello sparo con la pistola nel Capodanno del 2024) e ha fatto anche di necessità virtù, non avendo forse tutte le persone necessarie al nuovo potere di cui dispone. Però sembra proprio che alcuni se le studino di notte per metterla in difficoltà.
E’ il caso di Renato Brunetta, uno che sarebbe pure bravo nel suo mestiere di economista, ma che pare aver smarrito per la strada il buon senso. Pur guadagnando annualmente oltre 200.000 euro lordi come presidente del Cnel, ha pensato bene di aumentarsi di 60.000 euro, sempre lordi all’anno, lo stipendio. Formalmente, spiega il Cnel, che ha dignità costituzionale, si è solo data applicazione alla norma che rivede il tetto retributivo nel settore pubblico. Vero. Però Meloni s’è irritata lo stesso e alla fine Brunetta ha fatto marcia indietro. Constatazione: non ci voleva l’arrabbiatura della premier per verificare che mentre milioni di italiani non arrivano a fine mese era del tutto fuori luogo che Brunetta si aumentasse la busta, e non di poco, per una sine cura strapagata.
Potrei fare altri esempi di situazioni nelle quali Meloni ha in tutta evidenza un problema di classe dirigente. Deve starci attenta e soprattutto non può pensare di risolvere le situazioni più imbarazzanti facendo valere, lontano dai riflettori, il peso della propria autorità. E quindi, come nella vicenda di Brunetta, costringendo a dei repentini ripensamenti. Meloni rivendica anche autorevolezza. Ha dimostrato di meritare credito. Ma cominci a far volare delle teste. Di certe cazzate, scusate il francesismo, non se ne può più.
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