
Oggi è il Primo Maggio, festa dei lavoratori. Una ricorrenza che nasce da una lotta: quella del 1886 a Chicago, quando migliaia di operai scesero in strada per chiedere una giornata lavorativa di otto ore. Una lotta pagata con il sangue durante il massacro di piazza Haymarket, ma che ha segnato per sempre la storia dei diritti sociali. Oltre un secolo dopo, i temi di quella battaglia – precariato, sfruttamento, disoccupazione – non sono affatto superati. Anzi, tornano al centro del dibattito politico, anche a Genova come a livello nazionale.
Nel capoluogo ligure, il lavoro è diventato uno dei fronti più accesi della campagna elettorale. Silvia Salis, candidata sindaca della coalizione progressista, ha scelto parole dure: “Ogni contratto che non si rinnova, ogni giovane che parte, è un pezzo di futuro che perdiamo”. E cita numeri: oltre 3.000 assunzioni perse nel 2024, un calo del 2,7%. “La precarietà non è un destino, è una scelta politica”, accusa.
La replica del centrodestra non si è fatta attendere. Pietro Piciocchi, in corsa per succedere a Marco Bucci, rovescia la narrazione: “Altro che crisi, l’occupazione è in crescita”. Secondo i dati che cita, gli occupati sono passati da 221mila nel 2020 a 243mila nel 2024, con un aumento sensibile anche tra le donne. Per Piciocchi, Salis offre “l’ennesimo racconto allarmista”, lontano dalla realtà.
Chi ha ragione? Forse entrambi. O forse nessuno.
Perché i numeri, da soli, raramente raccontano tutto. È vero che i dati sull’occupazione possono indicare una ripresa, ma altrettanto vero è che in molte famiglie genovesi si respira incertezza. Trovare lavoro non significa, necessariamente, trovare un futuro. Soprattutto se si tratta di impieghi precari, sottopagati o senza prospettive. Il punto non è solo se si lavora, ma come si lavora.
La verità è che Genova, come molte città italiane, rischia di perdere la propria linfa vitale: i giovani. Troppo spesso, per trovare un orizzonte, fanno le valigie. La politica può litigare sui numeri, ma non può ignorare questa realtà.
Non servono promesse. Non servono proclami. Serve ascolto. Serve un progetto serio, che metta il lavoro al centro – non come slogan, ma come priorità concreta. Che renda Genova un luogo dove rimanere, non da cui partire.
Questa è la sfida vera, e riguarda tutti. Non solo chi vince le elezioni.
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IL COMMENTO
Il lavoro al centro della battaglia elettorale, ma Genova non ha bisogno di promesse
Alla politica del futuro di Genova non interessa?