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GENOVA - Qualche sguardo curioso, sicuramente un sorriso, il telaio di una moto e una pila di pallet. Nella tendopoli di Voltri convivono due realtà, due facce che non si potrebbe mai immaginare siano della stessa medaglia.

Gli ex cantieri Costaguta, nella zona industriale di Voltri, dismessi negli anni 80 dopo che per decenni avevano sfornato importanti imbarcazioni da regata, oggi non sono altro che un brutto capannone. Vecchio, con alcune finestre rotte da cui entra l'acqua quando piove. Intorno solo container, una strada usata da grossi camion senza neanche il marciapiede e da cui si vede solo la stazione.

All'ingresso un bidone della spazzatura, le tende blu della protezione civile e il brutto capannone, gigante, con una porta minuscola. E poi tanto vento.

Da fuori è in perfetta linea con le immagini che vengono in mente quando si pensa ad un punto di accoglienza temporaneo per migranti. Così era stato definito dal prefetto Franceschelli subito dopo l'arrivo delle prime persone da Lampedusa. Semplicemente, un'immagine brutta.

Eppure è bello. A solo un metro da un mucchio di carcasse di motorini, tutti accatastati nell'angolo del capannone di centinaia di metri quadrati, c'è una lavagna. "Io ho freddo" scritto con il gessetto.

Accanto alla piccola porta ci sono due tappetini posizionati verso La Mecca e affissi al muro vicino i fogli con gli appuntamenti della settimana. Il dentista, la serata con musica e balli, le lezioni, tutto tradotto anche in francese.

Vicino alla tenda del cibo ci sono i volontari della Croce Bianca Genovese, la ragazza del Congo che fa servizio civile ed è una delle poche che sa la lingua, i professori del Lanfranconi che passano i pomeriggi liberi a insegnare a persone con cui fanno fatica a comunicare. Poi una mappa che copre una scritta: "Benvenuti a Voltri".

C'è un altro tavolo pieno di ragazzi, avranno al massimo 25 anni, che guardano interessati la volontaria che gli spiega come si dice 'farmacia'. Poco più un là un altro tavolo, di quelli da picnic con le panchine di legno chiaro, poi un altro e un altro ancora. Tutti a qualche metro di distanza, tutti con le sedute piene, separati solo da aria e cavi delle luci da campeggio che illuminano uno dei due gazebo durante la cena, quando già fa buio.

Nel tavolo in fondo c'è una donna che tiene una lezione. In mano ha un un volantino con gli sconti di un supermercato: ripete "carne" e mostra le costine in offerta al 30%. Dice "pesce" e, girando pagina, indica con il dito l'orata a 4 euro. Tutti i ragazzi seduti annuiscono con la testa, alcuni ripetono.

Sul bancone a qualche metro di distanza ci sono due maestre volontarie che insegnano parole fondamentali come stazione, farmacia e ospedale usando il gioco dell'oca creato poche ore prima dagli studenti delle loro classi elementari.

Si sorride e si scherza quando rileggendo ad alta voce gli appunti invece che "ho fame" qualche ragazzo mormora "ho feme".

Sono lezioni non obbligatorie che però nessuno salta, perché imparare l'italiano è troppo importante. Lo è per trovare un lavoro, con cui molti di loro manterranno la famiglia nel paese d'origine. 

Un'immagine di felicità che stride dentro ad un brutto capannone, contornato solo di tende blu e container.