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Continuare a cambiare i dirigenti non è la chiave per rendersi attrattivo
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L'ennesima sconfitta del Partito Democratico, battuto in Liguria a Sestri Levante, una delle sue roccaforti, ha riaperto il dibattito sul suo futuro. Su questo argomento ho un'idea precisa, e non da oggi: il problema del Pd è il Pd. E' l'aggregazione di un vasto arco politico progressista a essere il principale limite del partito.  

E' per questo che non condivido l'opinione, peraltro espressa da molti autorevoli osservatori, che la soluzione per rendere il Pd più competitivo sia un cambiamento dei suoi dirigenti: questa strada è stata già seguita più volte, l'ultima meno di tre mesi fa con l'elezione alla segreteria di Elly Schlein, e non ha mai portato nulla di significativo.

La realtà, e la sfida Schlein – Bonaccini lo ha chiarito definitivamente, è che il Pd ha l'ambizione di parlare a due porzioni di elettorato molto differenti e quando ne accontenta una, scontenta l'altra. A differenza di quel che all'interno del partito sono disposti ad ammettere, su molti temi le correnti liberali e cattoliche del Pd sono lontanissime da quelle progressiste: il risultato è che quando il segretario è un esponente dei primi, i secondi si rifugiano nel non voto o scelgono altre proposte politiche. E viceversa. Se, al contrario, i partiti fossero due, com'era in origine, entrambi potrebbero spingere l'acceleratore della retorica sui loro cavalli di battaglia e conquisterebbero, in questo modo, molti più voti.

L'esempio plastico arriva dal centrodestra: l'ultima campagna elettorale, quella che ha portato Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, ha messo in luce quanto sia efficace una proposta politica sfaccettata, capace di parlare linguaggi diversi. Fratelli d'Italia si è concessa un'intera legislatura all'opposizione, incassando un risultato straordinario che ha poi condiviso con i suoi alleati che, al contrario, sono stati penalizzati proprio per il loro appoggio, in modi e tempi diversi, ai Governi Conte I e Draghi. Se il partito di Giorgia Meloni non fosse esistito come entità autonoma il centrodestra non avrebbe mai portato così tanti esponenti in parlamento. Non solo: nell'area dell'attuale Governo la proposta politica è variegata anche sul piano dei contenuti. C'è il nazionalismo di Giorgia Meloni, il sovranismo leghista, il moderatismo berlusconiano e di altre formazioni che, anche se piccole, contribuiscono al risultato finale. Ognuno ha tutto il diritto di parlare per sé e di negoziare poi le proprie istanze nell'ambito dell'alleanza che dà vita al Governo, sulla base dei numeri usciti dalle urne.

Sul fronte opposto tutto questo non può succedere e così i voti scappano da una parte o dall'altra a seconda di quale posizione, moderata o massimalista (come l'hanno definita alcuni suoi transfughi), prenda il Partito Democratico. Elly Schlein punta su alcuni argomenti, per esempio quelli di natura etica, che sono semplicemente intollerabili per l'ampia ala cattolica che dovrebbe votarlo.

Marta Vincenzi, l'altro giorno sul nostro sito, ha scritto che una delle soluzioni auspicabili è l'immediata “riconoscibilità del partito da parte dell'opinione pubblica delle proposte su welfare, lavoro, ambiente, fisco, guerra”: sarebbe molto bello se il Pd riuscisse davvero a portare nel dibattito delle posizioni “riconoscibili” ma questo è semplicemente impossibile. All'interno del partito ci sono moltissimi argomenti tabù, proprio la guerra è uno di questi ma non è il solo.

Così come è molto difficile il secondo suggerimento dell'ex sindaco, cioè rinforzare le strutture del territorio: siamo nel 2023, i partiti sono entità distanti dalla gente comune, non è più il momento dei circoli e delle feste dell'Unità. Oggi l'opinione pubblica si forma in modo diverso, il Pd come qualunque altra realtà non deve rischiare l'anacronismo.

Per tutti questi motivi suggerisco la scissione, peraltro già avvenuta nei fatti: il Movimento 5 Stelle, passata la sbornia grillina dell'uno vale uno, è oggi un partito progressista che attira le preferenze di una fetta importante del centrosinistra. Il Terzo Polo, o quel che ne resta, è l'ala liberal dei riformisti, culturalmente lontanissimi dall'utero in affitto e da tante altre proposte 'pop' della Schlein.

E' inutile cambiare di continuo il segretario per poi dire che la colpa è sua. Non è colpa sua: non è colpa di Bersani, Renzi, Letta o Schlein. Il problema è strutturale e come tale va risolto alla radice.

 

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