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Stiamo parlando di welfare o di una misura per il reinserimento nel lavoro?
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Essere contro il reddito di cittadinanza non è facile: se n’è accorta anche Giorgia Meloni che, all’atto pratico, non si è spinta fino all’ipotesi più estrema, che pure era circolata in campagna elettorale, e cioè di abolirlo.

La difficoltà è soprattutto filosofica, morale, più che pratica o politica: il reddito è un contributo alla porzione più fragile del Paese, serve come minimo sostegno a chi rischia di non mangiare o di perdere il tetto che gli copre la testa, per cui scagliarsi contro questa misura appare un po’ squallido. Al punto che, alla resa dei conti, nessuno lo fa.

Però, a ben vedere, questa norma è viziata da una contraddizione ab origine: quando ci approcciamo al reddito di cittadinanza, infatti, non siamo ben sicuri se stiamo parlando di welfare, cioè di puro assistenzialismo a chi non ha la possibilità di sostentarsi altrimenti, o se invece siamo di fronte a un’azione di politica attiva del lavoro. Il reddito, in pratica, è lo stipendio degli inabili o è un contributo temporaneo per chi ha perso il lavoro e non riesce a trovarne un altro, una specie di indennità di disoccupazione allargata?

Il modo in cui il governo Conte 1 aveva presentato la misura è più aderente alla seconda fattispecie: il reddito di cittadinanza, si diceva, è un aiuto d’emergenza ai disoccupati, un assegno che serve ad accompagnare il lavoratore in un percorso di formazione mirato al reinserimento nel mondo del lavoro. Allo scopo erano stati assunti i famosi 11mila ‘navigator’, formati per essere la guida dei percettori verso un futuro migliore.

Alla resa dei conti le cose non sono andate come si sperava, e forse era illusorio aspettarsi un risultato diverso: i ‘navigator’ sono stati i veri beneficiari del reddito di cittadinanza, nel senso che sono stati tra i pochi a trovare un vero lavoro, per quanto temporaneo, nell’ambito di questa operazione. Gli altri sono stati ingiustamente etichettati come fannulloni, come se uno che non riesce a trovare un’occupazione sia di per sé un perdigiorno.

E allora forse per ragionare meglio, e in modo meno demagogico, di reddito di cittadinanza, sarebbe il caso di distinguere le diverse situazioni: se lo Stato vuole attribuire un maggiore contributo a chi non può lavorare, perché inabile o gli sono riconosciute difficoltà insormontabili sul piano fisico o mentale, trova certamente il consenso generale. L’Italia è il Paese del terzo settore, del volontariato, del sociale, ma è bene che anche le istituzioni si facciano seriamente carico dei più deboli. Già esistono, ovviamente, le pensioni di invalidità o le indennità di accompagnamento, ma se lo Stato ritiene di voler aumentare quegli importi o allargare la platea dei potenziali percettori, trova me e senz’altro molti altri perfettamente d’accordo.

Diversa è la condizione di chi è idoneo al lavoro ma non lo trova: questo è un tema che va affrontato soprattutto nell’ambito della formazione poiché ci sono troppi italiani che potrebbero lavorare ma non hanno le competenze che vengono richieste dal mercato. I famosi 50enni che perdono l’occupazione, magari non specializzati e residenti in aree depresse, senza un significativo scatto un nuovo impiego non lo troveranno mai: quindi o il sistema si impegna a favorirne il reinserimento oppure un lavoro resterà una chimera. A quel punto sarebbe inutile discutere: se ci sono milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà e non hanno chance per risalire la corrente, il Paese deve farsene carico.

In questo contesto si inserisce la bozza, o le bozze, presentate da fonti governative in questi giorni: distinguere tra il ballon d’essai e il progetto politico non è mai facile in simili frangenti, però la strada sembra abbastanza tracciata. L’idea è quella di definire con nettezza chi sono coloro che un lavoro possono trovarlo da quelli che invece vanno accompagnati sine die: ai secondi va attribuito un reddito che io auspicherei dignitoso a sufficiente per una vita almeno decorosa; ai primi, invece, dev’essere dedicato ogni sforzo possibile per rientrare a pieno titolo nella comunità attraverso un impiego.

E’ qui che si apre una critica alla posizione governativa: Giorgia Meloni ha sbandierato con orgoglio il risparmio economico ottenibile dalla riforma, 3 miliardi di Euro, ma io credo che non sia questa la priorità del Paese. Credo che sia opportuno, invece, spingere a tavoletta sul percorso di formazione, destinando ad esso tutti i fondi possibili.

Si parla spesso del welfare predisposto dai nostri partner europei, e a tal proposito ricordo il percorso che mi fu descritto da un’amica che aveva deciso di trasferirsi in Germania: a lei fu assegnato un tutor che ne valutò il curriculum e le attitudini personali e li mise a confronto con il mercato del lavoro. Emerse che l’unico vero ostacolo fosse la piena comprensione della lingua tedesca, le fu così offerto un corso di lingua che le permise di mettersi in pari e rese poi possibile l’inizio di una carriera che, per quanto ne sappia, è stata ricca di soddisfazioni. Una storia analoga mi fu raccontata da un amico che aveva scelto come destinazione la Svizzera, accettando un’offerta di lavoro: quando quel contratto scadde e non gli fu rinnovato l’amministrazione della Stato si attivò immediatamente per reinserirlo in un'altra posizione, fornendogli la necessaria formazione.

Quasi ogni giorno raccolgo storie di imprenditori che non riescono a trovare le risorse necessarie a coprire diverse importanti posizioni: è su questa fetta di mercato che deve concentrarsi il Governo, rendendo le persone pronte a sfruttare le occasioni che pure ci sono.

Vi è, sullo sfondo, una questione geografica: ci sono aree del Paese in cui la piena occupazione resta un miraggio anche investendo tutte le risorse possibili. Su questo punto mi aspetto dallo Stato il massimo impegno per ridurre la distanza tra nord e sud (ma attenzione perché la questione non è solo meridionale) ma allo stesso tempo credo che non si possa accettare, come i dati sulla distribuzione del reddito di cittadinanza dimostrano, che intere zone d’Italia siano stracariche di disoccupati senza speranza.

Ecco perché serve un cambio di mentalità attorno alla misura di cui stiamo parlando: reddito di cittadinanza significa che ogni cittadino, anche se decidesse di non impegnarsi nel lavoro, ha diritto a percepire una certa indennità. Questa è roba da Emirati, non da Paese critico dell’Europa del sud: è quindi giunto il momento di dirsi le corse come stanno, azzerare le ipocrisie, aiutare chi non ce la fa ma spingerlo in tutti i modi a farcela. Se lo Stato fa il suo anche i cittadini faranno il loro.

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