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Prima Sinisa Mihajlovic, poi Edson Arantes do Nascimento detto Pelé, poi Gianluca Vialli. Nel giro di neppure un mese il cancro si è portato via tre icone del calcio mondiale. Tre persone che in vario modo hanno testimoniato la loro lotta contro il male incurabile. Il cordoglio è stato unanime, sentito, diffuso a livello planetario. Sono cadute tutte le barriere, da quelle del tifo a quelle nazionali, per lasciare posto al solo sentimento del dolore.

Ma un conto è piangere sul momento la triste e tragica fine di tre "amici", altro è fare in modo che il loro messaggio non vada disperso. Hanno fatto cose meravigliose sui campi di calcio. Però la cosa più importante hanno saputo farla quando hanno informato tutti che il male li aveva aggrediti e che nonostante ciò avrebbero provato ad andare avanti.

Non erano eroi. Né erano invincibili, come purtroppo si è visto. Erano semplicemente tre persone come ce ne sono milioni di altre, che quotidianamente combattono il cancro dal basso della loro esistenza normale, senza riflettori accesi. A volte, diciamolo senza ipocrisie, anche senza potersi permettere le cure che magari altri più fortunati sono in grado di pagarsi.

Ma quando si sale su quella barca, in realtà si diventa tutti uguali. Tutti pronti a combattere e sconfiggere, ove possibile, il male incurabile. E se invece arriva la sconfitta, almeno che non sia inutile. Mihajlovic, Pelé, Vialli sono stati tre abituati a vincere. Ma anche capaci di perdere. Anzi, sono stati più grandi proprio quando hanno dovuto fare i conti con i rovesci: pochi, però vissuti con la signorilità del loro sempre.

Anche nei confronti del male non si sono smentiti. Ed è per questa ragione che loro per primi, adesso, vorrebbero che si tornasse alla normalità in cui il ricordo prende il giusto posto nella vita di ognuno di noi. Ma che sia un ricordo consapevole, impegnato come usa dire. Contro il cancro bisogna combattere ogni giorno: nelle corsie degli ospedali, negli ambulatori medici, nelle case, nei laboratori di ricerca. È lì, su quei "campi", che tutti noi, non solo gli ammalati, giochiamo questa partita.

Ma la gara per la vita si gioca anche sul terreno della politica. Guardate, non vuole essere né populismo né facile qualunquismo il mio. Però se si vuole che la morte di Sinisa, Edson e Gianluca sia davvero servita a qualcosa  è necessario prima di tutto che sia la politica a trarne le conseguenze. Da essa vogliamo che sappia addolorarsi, certo. Ma soprattutto pretendiamo scelte utili alla battaglia.

Io sono certo che prima o poi gli scienziati sapranno trovare le contromisure necessarie. Ma non so, nessuno lo sa, quando questo accadrà. Fino ad allora la politica dovrà dare almeno due risposte. Una: trovare i soldi, tanti soldi, affinché la ricerca e la sperimentazione possano proseguire nel modo migliore. Due: trovare i soldi, tanti soldi, che rendano più sopportabile il peso che devono patire gli ammalati e le loro famiglie.

Fino ad oggi non è accaduto. Anzi, inopinatamente sono avvenuti dei tagli alla sanità e ricerca che gridano vendetta. In Italia nel settore abbiamo molte eccellenze, anche Genova ne possiede. Ma non possono bastare se non ricevono il giusto sostegno. Il resto sono sono chiacchiere. E almeno su ciò, di chiacchiere non vorremmo più sentirne.