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Autonomi e dipendenti abitano su due pianeti lontanissimi
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La flat tax per le partite Iva fino a 85mila Euro (anche se sarebbe più corretto parlare di ‘estensione del regime forfettario’) provoca vibranti proteste in alcuni ambiti della società civile: i lavoratori dipendenti, dice chi è contrario, sarebbero discriminati rispetto alle partite Iva poiché a parità di ricavi queste ultime pagherebbero molte meno tasse.

Premesso che il sottoscritto fa parte della categoria dei dipendenti e che sarebbe quindi nel mio interesse che il Governo agisse con decisione sul cuneo fiscale per abbattere la mia tassazione, credo che mettere a confronto gli autonomi con i dipendenti prendendo in esame esclusivamente l’aliquota dell’Irpef sia profondamente scorretto, direi strumentale.

L’Irpef, cioè l’Imposta sui redditi delle persone fisiche, è solo uno dei parametri che qualificano la tassazione di un lavoratore: nel caso dei lavoratori dipendenti procede a scaglioni basati sul reddito e va dallo zero della ‘no tax area’ per i redditi fino poco più di 8mila Euro, fino al 43% per chi incassa più di 50mila Euro (con scaglioni intermedi al 23, al 25 e 35%). Ma l’Ipref di per sé non racconta tutta la verità, poiché nel calcolo reale bisogna tenere conto di una gragnola di detrazioni e deduzioni che abbassano l’imposta, come le detrazioni per coniuge a carico, figli, spese sanitarie, universitarie, ristrutturazioni delle abitazioni, mobili, assicurazioni e quant'altro al punto che, il dato è di un paio d’anni fa, l’aliquota media pagata dagli italiani è del 17.5%. Non così distante dalla flat tax, in sostanza.

Nel calcolo vanno poi inserite le contribuzioni pensionistiche: a carico dei lavoratori dipendenti c’è all’incirca il 9% dell’imponibile da destinare all’Inps, il resto è a carico diretto del datore di lavoro. Una partita Iva a regime forfettario non iscritta a un ordine professionale e che non ha una propria ‘cassa’ paga il 26,23% del reddito dichiarato: una musica piuttosto diversa, come si vede.

E ci sono poi altri argomenti piuttosto interessanti che rendono il mondo degli autonomi ben poco paragonabile a quello dei dipendenti: le partite Iva non hanno le ferie, e quando ad agosto si riposano non guadagnano nulla, non dispongono del trattamento di fine rapporto; non hanno nemmeno le domeniche e i festivi, in realtà e non possono ammalarsi. Se stanno a casa non fatturano, ergo non guadagnano. E se dovessero entrare in crisi per qualunque ragione non potrebbero godere dei normali meccanismi di protezione che sono invece previsti nell’ambito di un contratto subordinato.

Va poi considerato, per parlare ancora di vile pecunia, che un dipendente, nell’esercizio delle sue funzioni, utilizza strumenti aziendali: pc, telefoni, persino le scrivanie, le luci e il riscaldamento sono a carico del datore di lavoro. Una partita Iva, invece, deve provvedere con mezzi propri e nel caso del regime forfettario, quello che rende possibile l’aliquota al 15%, non sono previste detrazioni e certamente la detrazione forfetaria, in percentuale diversa a seconda dell’attività esercitata, non compensa totalmente le spese che il lavoratore autonomo deve affrontare e non può dedurre. Persino la benzina della macchina o l’affitto dell’ufficio sono completamente a carico del contribuente, senza sconti. Vi basta per capire che autonomi e dipendenti vivono su due pianeti lontanissimi?

Ovviamente non scrivo allo scopo di demonizzare la scelta di chi ha deciso di essere un libero professionista: tutt’altro, lavorare in proprio consente di stabilire (talvolta) un rapporto diretto tra l’impegno che si profonde e il reddito che si intende conseguire ma allo stesso tempo ogni giorno si corrono dei rischi, persino quello di andare a gambe all’aria, che sono del tutto sconosciuti a un lavoratore dipendente.

In definitiva, un dipendente non può sentirsi discriminato perché a parità di reddito la sua aliquota Irpef è più alta rispetto a quella di un autonomo: la discriminazione non esiste sul piano economico (perché una partita Iva, l’abbiamo visto, deve fare fonte ad altri costosi balzelli), né su quello lavorativo. Sono situazioni diverse e ognuno deve scegliere la sua.

Poi, chi vuole provare l’ebbrezza dell’aliquota al 15% può farlo anche subito: firma la sua lettera di dimissioni (magari da un bell’impiego pubblico…) e apre una partita Iva. A chi dovesse farlo, qui è proprio il caso di dirlo, tanti auguri di “buon lavoro”.