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Le filiere del lusso generano ricchezza in tutta la popolazione
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L’antropologo culturale ed eccentrico conduttore televisivo Philippe Daverio, passato a miglior vita due anni fa, soleva provocatoriamente dire che noi italiani abbiamo una missione: “Dovete adottare un ricco”.

Un motto curioso per un sessantottino radicale, poi indubbiamente divenuto radical-chic, che per non sottomettersi al senato accademico aveva persino rinunciato a discutere la tesi in Economia all’università Bocconi, restando privo della laurea.

Eppure, al di là del gusto per la battuta, la teoria secondo la quale la ricchezza sia un fenomeno da valorizzare e non un mostro da combattere torna spesso a galla, specialmente quando alcuni numeri ci permettono di riflettere in modo non ideologico. Del resto se analizziamo con un pizzico di attenzione i dati statistici della nostra economia, ci accorgiamo presto come proprio dalle cose belle e costose, comprate dai ricchi, derivino conseguenze virtuose per tutti coloro che ricchi non sono.

Sono riflessioni che ieri, partecipando all’assemblea pubblica di Confindustria Nautica in una splendida villa di Roma (la stessa in cui Ilary e Totti avevano festeggiato le loro nozze, quindi il luogo è bello ma forse non così fortunato in amore) mi sono venute naturali: la nautica da diporto italiana, che ovunque la si osservi non è un giochino per tutti, corre generando ricchezza come nessun altro settore nazionale. Il 2021 ha fatto registrare una crescita nei fatturati del comparto a doppia cifra ma con il 3 davanti (+31%), roba da Silicon Valley: e proprio dove i portafogli pesanti la fanno da padrone, cioè nei maxi yacht oltre i 24 metri, l’Italia è leader assoluto a livello mondiale. Non dovremmo forse essere contenti che i ‘paperoni’ vengano dai quattro angoli della terra a portare le loro monete d’oro nei nostri forzieri?

E non è solo la nautica ad attirare i ricchi come i fiori fanno con le api: era sempre il sopraccitato Daverio a dire che l’Italia è il Paese delle “quattro F”, food, fashion, forniture and Ferrari (quest’ultima per celebrare la nostra meccanica di precisione). Tutte branche dell’industria che producono pezzi pregiati, costosi e ambiti dalle classi agiate. E’ un problema?

No, è ovviamente una risorsa. Che non ha niente a che vedere con le rivendicazioni sindacali per stipendi più adeguati e una migliore redistribuzione delle risorse, intendiamoci: al contrario, più è in attivo la nostra bilancia commerciale, più è forte la nostra economia, maggiori sono le possibilità di rendere migliore la vita di tutti. Anche dei più poveri.

Avete mai pensato a cosa c’è dietro una barca? A spanne: un gruppo di ingegneri e designer che la progettano, un team di operai che la realizzano, un architetto che la arreda, un intermediario che la vende. Poi un gruppo di amministrativi che tengono i conti, un ufficio acquisti che approvvigiona i materiali, un ufficio stampa che promuove il lavoro della squadra. Senza dimenticare quelli che la barca la pilotano, la riparano, gli fanno il pieno di carburante, cucinano a bordo, la ormeggiano, la gestiscono, la noleggiano. E ancora i guardiani negli stabilimenti industriali e il personale che li mantiene. Un business colossale nel quale per ogni addetto alla cantieristica si generano altri 9 posti di lavoro altamente specializzati e ben retribuiti in una strepitosa filiera. Costoro sono tutti ricchi?

No, ovviamente, sono persone normali che vivono del loro lavoro: un impiego esiste perché c’è una filiera del lusso che garantisce fatturati stellari ed esalta le qualità specifiche della nostra manifattura che, come dimostra il mercato, non ha eguali nel mondo. Dovremmo vergognarcene o sfruttare queste capacità a nostro vantaggio?

Ecco perché credo che Daverio, nella sua provocazione, avesse pienamente ragione: noi dobbiamo adottare i ricchi  (che per ragioni strutturali sono sempre più lontani da qui, basta osservare lo spostamento verso oriente dell’asse del Pil). Dobbiamo insegnare loro che il lino è perfetto per l’estate e la flanella per l’inverno, liberandoli da quelle porcherie sintetiche che continuano a indossare nonostante i loro soldi. Li dobbiamo nutrire dei nostri cibi prelibati spiegando loro dove la panna è meglio che non vada e poi dotarli delle nostre barche con cui solcare le coste del Mare Nostrum.

L’economia italiana non può essere tutta qui, ovviamente: c’è ancora bisogno dell’industria pesante, dei servizi e di molto altro. Ma se Roma è la città più visitata al mondo e l’Italia, nel suo complesso, è solo al quinto posto con 24 milioni di turisti in meno rispetto alla Francia, significa che abbiamo ancora tanto da fare per comunicare la vera bellezza del nostro Paese.

Che è dappertutto: nel campanile della chiesa di un vecchio borgo, nella presa d’aria di una Ferrari, negli intarsi di un mobile brianzolo, in una seta comasca, nel pesto, nella focaccia, nel vermentino e nella cabina armatoriale di un maxi yacht. Sono tutte cose che abbiamo solo noi: dobbiamo solo dire a tutto il mondo di venirsele a prendere.

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