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GENOVA - Quando arriva l'estate, per noi che soffriamo il freddo ma il caldo - scusate il bisticcio - non ci fa né caldo né freddo, migliora la condizione personale ma diventa difficile - sfiorando l’argomento - la vita sociale. Più di quanto già non sia.

Confesso: io vivo bene d'estate, anzi benissimo, anche per la temperatura se non soprattutto, e mi spiace duri così poco.

Adoro il caldo: ci si veste leggeri e pazienza se nel mio caso specifico esiste, oltre alla riprovazione collettiva legata alla preferenza, anche il fastidio di sentirsi dire continuamente "ma come sei dimagrito", quando invece è semplicemente la differenza fatta dai paludamenti stagionali; si mangiano i gelati e si beve fresco, le giornate sono più lunghe, chi vuole infine va al mare. Poi ovviamente ci sono anche quelli che vanno a nuotare in mare tutto l'anno, li ammiro ma per me l'acqua davanti alle spiagge è sempre fredda. Come quella della doccia che, a proposito, farne una calda adesso (io la faccio sempre calda) è triplo peccato mortale, perché sotto la pigna coi buchi si aiuta il Cremlino, si contraddice la tipa con le trecce e si spreca acqua.

Vita grama. D'inverno, che per me va da settembre a maggio, si patisce e pure parecchio, anche perché di solito piove molto, in una città ventosa come Genova l'ombrello è soltanto mangime per i contenitori dei rifiuti e inoltre il misto freddo/pioggia è micidiale.
D'estate invece bisogna tacere le proprie preferenze per non essere socialmente riprovati, se non insultati più o meno scherzosamente, da quelli - la maggioranza, lo riconosco - che invece non sopportano il caldo.

Oppure si viene rimproverati perché si porta la giacca (come Harry Dean Stanton nell'incipit di Paris, Texas, nella foto) o anche solo la camicia con le maniche lunghe (più elegante di magliette o polo), non ci si lamenta dell’afa ma anzi la si ritiene preferibile a tutto quello che porta con sé il buio che cala alle quattro del pomeriggio, i mal di gola, i raffreddori, il riscaldamento domestico che non basta mai ma bisogna farselo bastare, specie di questi tempi che aprire una bolletta è come le buste uno due o tre di Bongiorno.

Quando ho sentito Draghi che annunciava la stretta sui condizionatori, per via della crisi energetica dovuta alla guerra, ho pensato che non tutto il male vien per nuocere, così come la pandemia pur essendo una catastrofe aveva almeno dato una calmata alle strette di mano sudaticce e a quelli che ti toccano mentre ti parlano. Ma mi ero illuso: al primo treno regionale preso per Sestri mi sono trovato in una ghiacciaia. Nella mia redazione di prima, ogni estate mi disponevo alla battaglia - ultraminoritaria come tutte e perdente come quasi tutte quelle che ho fatto - per la mitezza dei brutali aeratori dall’alto del soffitto, pompati irragionevolmente al massimo, col corollario che per qualche collega faceva troppo caldo anche a gennaio e, sempre a maggioranza, veniva aperta almeno una finestra, ovviamente nei pressi della mia scrivania, il tutto in una redazione soppalco dove sotto i miei piedi c'era un mostruoso spiffero. Così nel mio armadietto c'erano una felpa dolomitica per l'estate e una stufetta a resistenza elettrica per l'inverno. Adesso, sotto custodia del curatore, sono entrambe in un magazzino in val Polcevera.

Insomma, se potessi permettermelo, farei sei mesi qui e sei dai miei parenti a Buenos Aires, dove il Natale lo festeggiano in spiaggia. Ma non posso e quindi almeno qui voglio dire il contrario di quella incantevole canzone di Bruno Martino: amo l'estate.