Cronaca

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Ora viene fuori che sulla terrificante crisi economica che ci attanaglia si sapeva praticamente già tutto. Tranne il motivo per cui fino al giorno prima nessuno l'aveva prevista. A parte la facile ironia sugli economisti (che ti spiegano domani perché quel che avevano previsto ieri non si è verificato oggi), conviene abituarsi all'idea di uno scenario economico internazionale, nazionale, e persino locale, profondamente mutato nel giro di poche settimane. Rispetto al quale io, a differenza di altri, ho pochissime certezze, che provo a mettere in fila con parsimonia.

La crisi non è affatto finanziaria. È il frutto degli enormi squilibri dell’economia globale: da un lato l'enorme sovrapproduzione a bassissimi costi (in particolare del lavoro) della Cina e di alcuni altri paesi in rapida crescita; dall'altro i consumi degli Stati Uniti e di altri paesi “avanzati”, permessi da una politica creditizia molto espansiva e persino dalla liquidità immessa dalla stessa Cina (che, dal canto suo, ha livelli di consumo bassissimi, meno del 40% del PIL).

Tradotto: se il paese A consuma beni che non produce pagandoli con soldi che non ha (e il paese B produce più di quanto consuma e presta i soldi al paese A perché gli compri il resto), non ci vuole un economista per capire che prima o poi qualcosa andrà storto. E infatti. Questa è dunque una crisi di sovrapproduzione (come quella del 1929) con in più una componente finanziaria che l'ha propagata rapidamente in tutto il pianeta (il pianeta dei risparmiatori e finanziatori). La conseguente stretta del credito è poi rimbalzata ancora sull'economia reale, facendo cadere la domanda.

Come se ne esce? "Ripartiamo dall'economia reale!", cinguettano tutti. Giusto. Ma soprattutto rimettiamo in equilibrio domanda e offerta, globalmente e a livello di singole regioni economiche. Paesi come l’Italia devono continuare o ricominciare a produrre, tralasciando quelle produzioni in cui non possiamo più fare concorrenza ai paesi emergenti per gli enormi divari del costo del lavoro, e concentrandosi sulle produzioni più difficili, che richiedono tradizioni industriali, conoscenze, ricerca, innovazione, eccetera. Non è solo – e non è tanto – il famoso Made in Italy degli accessori griffati e dei consumi di lusso. Bisogna invece riaccendere i motori nei settori virtuosi dell’alta tecnologia, magari unita alla qualità e al lusso, come nel caso della cantieristica da diporto e da crociera, in cui siamo locomotive mondiali. E poi aggiungere altri comparti in cui non dovremmo temere la concorrenza. Come il turismo (perché nessuno ha il nostro patrimonio storico e artistico, il nostro paesaggio e il nostro clima), o la logistica (perché per distribuire nei mercati finali italiani ed europei bisogna essere qui, e non in India).

Soprattutto, bisogna far crescere la domanda: consumi e investimenti, privati e pubblici. È la ricetta del New Deal di Roosvelt, ma con in più un piccolo e sgradevole dettaglio: non ci sono i soldi (trascurando il fatto che dalla crisi del 1929 si uscì soprattutto con l’enorme accelerazione della domanda pubblica causata dalla guerra mondiale). C'è dunque poco e costoso credito, e bisognerà quindi competere per investimenti e capitali internazionali. E per essere competitivi abbiamo molti elementi di grande debolezza, e pochi di (relativa) forza.

È elemento di debolezza, in primo luogo, una finanza pubblica tra le più sgangherate del pianeta, in cui spicca solo l'avanzo primario (cioè il saldo prima del pagamento degli immani interessi sul debito pregresso) quasi sempre positivo da oltre 15 anni. Ogni altro parametro è da brivido, a cominciare dal debito pubblico ("il terzo del mondo", ripete Tremonti come un mantra) accumulato in decenni di finanze allegre, e che oggi impone al Governo di tagliare su tutto. E poi l'alto costo dei fattori produttivi, in primis il lavoro; le carenze infrastrutturali; l'incertezza del diritto; i tempi biblici della pubblica amministrazione, il dominio della criminalità organizzata su parti importanti del territorio; un sistema formativo - scolastico e universitario - in declino da molti anni.

È invece un punto di forza la relativa solidità del nostro sistema creditizio, dovuto soprattutto alla sua relativa “arretratezza”: gli Italiani risparmiatori e lo scarso ricorso al credito, quanto meno a confronto di altri paesi.

Per far ripartire la domanda, occorre: tenere basso il costo del denaro, anche con aiuti alle banche; stimolare i consumi privati, finanziando i redditi più bassi (il che è anche moralmente positivo) e detassando il reddito del maggiore lavoro; stimolare, anche con incentivi fiscali, gli investimenti privati e quelli pubblici (in particolare le grandi infrastrutture di trasporto e per l'energia, che creano le condizioni per la competitività delle imprese private).

Sul lato dell'offerta, occorre attrarre capitali internazionali - indispensabili per finanziare grandi opere pubbliche - con una seria riforma della macchina pubblica, della giustizia amministrativa e civile, della finanza di progetto (che pure sta funzionando benino). E occorre aumentare la qualificazione del lavoro puntando sull'alta formazione e sulla ricerca.

Gli esiti sono incerti, e da questo punto di vista una manovra di bilancio pubblico che riduce la spesa invece di aumentare le entrate è non gradita ai contribuenti, ma anche più assennata: un euro di (presunte) maggiori entrate è la stima di un possibile prelievo conseguente ad un'ipotesi di reddito che la crisi rende sempre estremamente aleatoria; mentre un euro risparmiato è un euro risparmiato, punto.

Tornare all'economia reale, dunque. Certo, la finanza è la benzina, e senza benzina non si va da nessuna parte. Ma l'economia reale è l'automobile, senza la quale non sappiamo che farcene, della benzina. Poi bisogna anche saper guidare (la formazione, l'economia della conoscenza, eccetera). E bisognerà pur chiedersi, prima o poi, dove vogliamo andare, cioè quale progetto di sviluppo, a livello mondiale, pensiamo di perseguire. Probabilmente, l'unico progetto che ci salverà è quello di puntare alla crescita delle regioni del mondo che oggi sono ai margini dell'economia e ai limiti della sopravvivenza. La crescita stabile e forte dell'Africa, dell'Asia ex sovietica, del Centro America, saranno economicamente utili al mondo intero. Perché se non sappiamo dove vogliamo andare, è piuttosto difficile che ci arriviamo.

*Senatore del Pdl