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Una crisi che sembra seguire, più che le leggi della politica, le regole della chimica e forse degli scacchi
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Questa crisi sembra seguire le leggi della fisica, più che quelle della politica. In apparenza, lo scontro personale è stato esasperato al punto che delle due carriere politiche di Renzi e Conte una dovrebbe terminare qui. Probabile invece che entrambe ripartano, appunto all'insegna della legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

L'“esplorazione” di Fico, che si prolunga nella banalità primorepubblicana di un "tavolo di confronto", ha lo stesso risultato dell'estrazione della radice quadrata di un numero negativo. Chiara nella sua impossibilità. Le forze della maggioranza uscente (Pd, LeU, M5S e Iv) sono d'accordo per ripartire, ma Renzi ha chiesto la ridefinizione della squadra: fuori Arcuri, Bonafede, Azzolina, Gualtieri e Catalfo. Insomma, fuori Conte. Un prezzo inaccettabile, almeno sembra.

L'arma delle elezioni è una pistola dalla cui canna non uscirà proiettile alcuno, ma la bandierina dalla scritta "Bang".
Chi la posa sul tavolo sa benissimo non solo che molti parlamentari, destinati a non essere rieletti, accetterebbero qualsiasi soluzione pur di non perdere due anni di mandato. Inoltre Mattarella, come ha lasciato intendere scegliendo Fico e non la Casellati per l'incarico esplorativo, è tuttora sensibile al richiamo della foresta di appartenenza, come la sua storia personale e le circostanze dell'elezione al Colle indicano: e in quel che resta dei partiti che lo elessero nessuno, anche minacciandolo, vuole davvero il voto.

Ed ecco Lavoisier. Non un costituzionalista ma un chimico. Ghigliottinato all'apice della Rivoluzione. Senza arrivare a dettagli sì cruenti, devitalizzare il duello Renzi-Conte è meno infattibile di quanto sembri: entrambi hanno rinnegato più volte quanto detto e fatto in precedenza, l'uno dalla solenne promessa di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum e dall'altrettanto solenne intento di non fare governi coi grillini, l'altro dalla sorridente firma apposta ai decreti Salvini e dall'apparentamento al trumpismo. Un passo indietro, anzi l'ennesima “mossa del cavallo”, nel nome delle rispettive ambizioni di due personaggi politicamente ancor “giovani”, è prevedibile. Ma serve un arbitro, anzi un mossiere, e il suo nome è Draghi.

Se il tecnocrate romano, più volte contattato in questi giorni dal Colle, accettasse l'incarico di guidare un governo di salute pubblica
, i due contendenti potrebbero disporsi a una vittoriosa sconfitta come la Farnesina e la Difesa, posizioni di tregua per la futura contesa elettorale a questo punto a scadenza 2023. Al favore per il nome di Draghi non potrebbe sottrarsi Forza Italia, visto che era stato proprio Berlusconi nel dicembre 2005 a indicare l'economista per il posto di governatore della Banca d'Italia. A quel punto anche la Lega, tendenza Giorgetti, potrebbe adattarsi all'appoggio esterno, in funzione cosmetica di presentabilità elettorale allo spirare naturale della legislatura.

Alla nuova maggioranza - che perderebbe probabilmente l'ala intransigente della delegazione parlamentare grillina, destinata a trovarsi a fianco di Fratelli d'Italia ormai unico partito pro-urne senza condizioni – spetterebbe anche, tra un anno esatto, la scelta del nuovo capo dello Stato. Ed è chiaro che Draghi sarebbe il candidato naturale. Sempre che non torni in auge appunto un altro caposaldo della fisica classica, il Secondo Principio della Termodinamica: le trasformazioni di stato non sono reversibili e ognuna di esse comporta una dispersione di energia. Ovvero: le macchine perfette non esistono, così come i progetti perfetti. E il piano Draghi sembra perfetto. A una mossa del cavallo segue però spesso lo scacco matto. O una patta per stallo.