cronaca

La pandemia ha rarefatto il calendario della commemorazione della fine della Shoah
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 Poi c'è una poesia che così termina: I tuoi capelli di cenere, Sulamith. L'aveva scritta Paul Celan, ebreo rumeno sopravvissuto alla Shoah ma non a se stesso. Così comincia: Nero latte dell'alba lo beviamo la sera. Ogni 27 gennaio questa Todesfuge, fuga di morte, questi versi sono il salmo delle anime passate per il camino.

Dei sei milioni di tombe scavate nell'aria, nelle prigioni dell'Europa fredda nascoste nel buio dell'ultima guerra, ce ne sono anche di genovesi. I loro nomi sono scolpiti su una pietra, all'ingresso della piccola necropoli israelitica, appartata dietro un portale ad arco in un angolo del monumentale di Staglieno, con i sepolcri avvolti dall'abbraccio brado della vegetazione fino alla fine dei tempi. Ma loro non ci sono, ne sono rimasti solo i nomi.

Erano stati 230 i deportati della nostra comunità ebraica, rintracciati dopo che gli ufficiali SS avevano costretto il custode del tempio a fornire l'elenco segreto degli iscritti. Sarebbero tornati appena in otto.
Non avrebbe rivisto Genova nemmeno il rabbino capo Riccardo Pacifici, che oggi è una piazzetta a Castelletto prospiciente la sinagoga, oppure una targhetta quadrangolare di ottone sul lastricato di galleria Mazzini.

La deportazione e l'assassinio erano stati l'ultimo atto del soffocamento di un popolo cominciato nel 1938, nell'indifferenza degli "altri". Scienziati, commercianti, professori, imprenditori cancellati d'un tratto dalla loro stessa esistenza. Poco più di due anni fa, un ottantennio dopo, i nomi degli avvocati ebrei radiati dall'albo sono ricomparsi nell'atrio del palazzo di giustizia, al cospetto del giudice costituzionale professor Amato.

Quest'anno anche la Memoria corre nell'aria, le cerimonie di sempre si sono officiate in una dimensione virtuale, nelle aule delle istituzioni come nei teatri senza pubblico, in una rarefazione formale straordinariamente simile a quel senso del niente che aveva accompagnato il paranoide e demoniaco tentativo di cancellazione di un popolo. La piccola comunità ebraica genovese, di là dai luoghi comuni spesso autoironizzati sulla particolare intelligenza e la vocazione alla finanza, ha espresso invece soprattutto artisti di teatro: Lele Luzzati, Alessandro Fersen, Aldo Trionfo. E aveva origini israelitiche, per quanto dissimulate nel vortice delle innumeri personalità indossate prima per mestiere e poi per abitudine, anche Vittorio Gassman. Scampati per sorte allo sterminio, avrebbero restituito in bellezza parte di quel dono.

Era ebrea anche Irma Brandeis, la Clizia di Montale, invano da lei chiamato in America prima che prendesse a infuriare la Bufera, per un cambio di vita alfine disdegnato dal poeta, lui della razza di chi rimane a terra. Ed era ebreo infine lo Spino di Tabucchi, caparbio investigatore del più bel libro genovese del secondo Novecento. Spino come Spinoza, disse lo scrittore. Spinoza era sefardita, cacciato dai suoi stessi fratelli, per aver negato il suo e loro destino: avere il filo dell'orizzonte nello sguardo.