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Il "Grande gioco" riguarda non tanto il governo, quanto le prossime presidenziali
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 La crisi ai tempi del Covid si apre nel segno di due contraddizioni: un partito antisistema, mietitore di un voto su tre in chiave antisistema, imbullonato adesso però al centro del sistema; un altro partito, già fiero nemico del precedente, ora ad esso avvinto come l'edera, anche perché al potere da un decennio quale "partito delle istituzioni" benché votato da un elettore appena su otto aventi diritto. Da questa sfarinata e contraddittoria maggioranza riparte il capo dello Stato, per verificarne pulsazioni e temperatura e ogni altro parametro vitale.

Mattarella, eletto a maggioranza dal PD e del medesimo espressione a suo tempo militante, inizia le consultazioni nella consapevolezza di non poter battezzare un esecutivo di corto respiro, fondato sui Ciampolillo e sulle Rossi. Due le soluzioni praticabili: un governo di unità nazionale, sul modello del gabinetto postbellico guidato da Parri, o una più prosaica quanto probabile rappacificazione tra Renzi e il Pd. Il prezzo della prima ipotesi è un balcone su vista Colle, la seconda comporterebbe un ingresso di Italia Viva in un ruolo strategicamente affine a quello craxiano nei pentapartito fine anni Ottanta: escluso Palazzo Chigi, resterebbero praticabili dicasteri prestigiosi come gli Esteri per il senatore di Rignano e la Difesa per la Boschi.

Più che della composizione dell'esecutivo, il grande gioco riguarda la successione a Mattarella. Il governo nascituro dovrà infatti fare da mastice alla legislatura, fino al 2 agosto quando scatterà il semestre bianco. Lo schema originario, prima della crisi, vedeva Franceschini e Veltroni i più avanzati nella tessitura, con D'Alema da tempo in contatto con Conte non solo per via delle origini pugliesi. Ma adesso tutto potrebbe cambiare: la formazione del nuovo governo dovrà tener conto, prima di ogni altro fattore, dell'identità del prossimo capo dello Stato.

Una ricomposizione della frattura a sinistra fra PD e Italia Viva consoliderebbe la terna di candidati del Nazareno, mentre un rimescolamento di carte con allargamento della maggioranza aprirebbe la strada a ogni ipotesi, perfino le più impensabili: si va dalle ambizioni sempre meno dissimulate da Berlusconi alla prospettiva visionaria, finora sussurrata, di un candidato eccentrico come Renzo Piano, tra i migliori simboli possibili dell'Italia nel mondo e - dettaglio non trascurabile - ottimo amico di lunga data di Beppe Grillo.

Per il momento, ci sono da trovare un presidente incaricato e una maggioranza.
La defezione renziana offre amplissimi margini a quella frazione di centrodestra che non si riconosce nell'intransigenza di Salvini e soprattutto della Meloni, fermi sulla richiesta di elezioni anticipate. Se tra i berlusconiani ortodossi in molti non vedono l'ora di rientrare al governo, Toti tiene fermo il suo gruppo di parlamentari arancioni sulla linea dell'attendismo, funzionale al sostegno di un governo di unità nazionale che pare, a tutt'oggi, la soluzione meno impervia.

In nottata ha preso a circolare la voce di un incarico a Di Maio, ministro dell'Industria e vicepremier nel Conte I e ministro degli Esteri nel Conte II: mossa che andrebbe attribuita a un intento luciferino di Mattarella e del suo segretario generale Zampetti, per accelerare la decostruzione di quelle armate grilline scese a Roma con orgogliosa sicurezza. Quanti pentastellati abbandonerebbero il primo ministro uscente al suo destino? Probabilmente tutti. E la conta su Conte semplificherebbe il ritorno della politica a se stessa. Non certo un quadro esaltante, ma meno anomalo dello scenario delineatosi tre anni fa.