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Il “Racconto di Genova”, difficile umiliare anche un doge bombardato /2
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Passeggiavamo a Sarzano con i pisani della Meloria e Arrigo VII e a Sarzano restiamo. Nel nostro Racconto di Genova (le prime puntate presto le vedremo sugli schermi di Primocanale), ci lasciamo alle spalle la ricostruita casa di Cristoforo Colombo e superiamo la porta che, attraversando le Mura del Barbarossa (costruite in tempo record da tutti i cittadini genovesi) introduce nella città vecchia. La Porta Soprana o Porta di Sant’Andrea. Una deliziosa Madonna restaurata pochi anni fa e sotto l’arco due epigrafi. Ci interessa quella di sinistra perché ha una caratteristica divertente: è una specie di auto-promo di Genova. Proprio così:un’autopromozione destinata a chi sta per entrare. In pochi versi Genova si presenta con le sue qualità.

Ce la spiega un illustre latinista, il professor Marco Buscaglia che per molti anni ha insegnato al liceo classico Colombo di via Bellucci. E ci fa notare che si tratta di un interessante esempio di Oggetto Parlante. “In epigrafia - spiega il professor Buscaglia - si definisce così un oggetto fornito di iscrizione in cui il testo simula che sia l’oggetto stesso a parlare. Qui non è la porta, ma l’intera città di Genova che si presenta, in un testo redatto in esametri leonini in cui il primo emistichio (ciascuna delle due parti in cui un verso, suscettibile di ripartizione, può essere diviso da una cesura) rima col secondo.”

Ecco la traduzione:

Nel nome di Dio Onnipotente Padre Figlio e Spirito Santo / sono munita di uomini, circondata da straordinarie mura/ e col mio valore respingo le armi nemiche /

In nomine omnipotentis Dei, Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. / Sum munita viris, muris circumdata miris / Et virtute mea pello procul hostica tela.

Se porti pace ti è lecito toccare queste porte/ se cerchi guerra ti ritirerai triste e sconfitto / Austro e Occidente settentrione e Oriente / sanno quanto grandi guerre io, Genova, ho superato.

Si pacem portas licet has tibi tangere portas / Si bellum queres tristis victusque recedes / Auster et Occasus, Septemptrio novit et Ortus / Quantos bellorum superavi Ianua motus.


L’altra epigrafe, quella di fronte, reca una data significativa: addirittura il 1115. Dunque torniamo in vico dritto di Ponticello. La casa originaria di Cristoforo Colombo fu distrutta dalle bombe del re Sole nel 1684. Insomma la distruzione sembra essere una nefasta prerogativa genovese ahimé…. L’ultimo bombardamento, quello anglofrancese avvenuto la mattina del 9 febbraio del 1941 qui, in questo pezzo di città, ha fatto danni enormi. E centinaia di vittime.

Circa la genovesità del Navigatore, dopo gli studi di Paolo Emilio Taviani nessuno la mette più in dubbio e la riconfermano in un bellissimo docufilm realizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Genova il medievalista Antonio Musarra e il brillante storico dell’arte Giacomo Montanari, che spiega gli spostamenti di abitazione dei Colombo. “Vivevano a Quinto dove stava lo zio Antonio, ma molto presto si trasferiscono a Genova. Ottengono dai dogi l’incarico della custodia della Porta dell’Olivella e della torre di Campo di faro, la Lanterna. Risiedono prima vicino all’Olivella e nel 1455 ottengono un terreno e una casa nel vico Diritto di Ponticello nel borgo dei Lanaiuoli non distante dalla Porta di Sant’Andrea.”

Da Sarzano, una creusa che sfiora le case diventa un terrazzo sul mare. E dal mare Genova ha subito gli attacchi più terribili. Assalti e piogge di bombe. Da quello del fratello di Annibale, Magone contro la città alleata dei Romani, finito in un tremendo saccheggio, a quello di cui dicevamo prima degli inglesi. In mezzo ci pensarono i Mori che fecero 9 mila prigionieri e il Re Sole con tredicimila bombe. Lo fece per una decina di giorni, tra il 18 e il 29 maggio 1684. Un attacco con tentativi di sbarco sferrato da una squadra navale eccezionale. Tutto, secondo quanto sosteneva Luigi XIV per “convincere” i genovesi a mollare la Spagna per allearsi con la Francia. Alla fine con questi metodi spicci utilizzati spesso anche oggi, ci riuscì. Genova fu costretta a chiedere la pace e il doge a andare a “umiliarsi” a Versailles. Genova rimase indipendente ma il doge Lercari manco per sogno che si umiliò. Anzi.

La delegazione genovese degli Umiliandi percorse un’opulenta galleria degli specchi (a Genova ce n’erano di altrettanto splendide!), indossando abiti realizzati con il magnifico velluto nero. La corte del Re Sole, che pensava di stracciare i poveri genovesi provinciali, ricevette una bella sberla e quando Luigi chiese a Lercari che cosa l’avesse di più stupito in questa sontuosa reggia il doge rispose in genovese: “Mi chi!” Cioè . “Io qui!”. Per fortuna Luigi XIV la prese bene. Far abbassare la testa ai genovesi non era impresa facile. Né allora. Né in seguito.

E ora da Sarzano scendiamo verso il porto.

(2-continua)