Rivoglio il Morandi, ma quello di Renzo Piano, “alla genovese”. O qualcosa di simile, purché attraversi la Valpolcevera lì dove era o più su più giù dove i tecnici diranno. Ma senza, non ci resisto. Mi rendo conto solo oggi di quanto lo utilizzavo. Più o meno come piazza Corvetto, o la galleria di piazza Dante. Più o meno come via Venti o la Sopraelevata. La differenza è che sul Morandi ci andavo ma non me ne accorgevo perché, attraversandolo, non guardavo niente, né il panorama, né i camion in coda. Il Morandi era il mio traghetto rumoroso tra due Genova che da quando ero ragazzo ormai per me erano unite.
Per questo tifo per Toti e per un altro ponte, lì e subito. Ma come dice Piano. Un ponte con un suo carattere.
La catastrofe mi ha messo davanti alla mia giornata sui ponti. Il ponte Caffaro che tiene uniti due speroni di Castelletto e che si stinge lasciando scolorire lo stemma di Genova. Il Monumentale, sopra via Venti per saldare la collina di Carignano con l’Acquasola, o quello di Sarzano sopra i giardini di plastica per collegare Architettura a uno dei quartieri più eleganti della città con la lapide del benefattore che invita a non suicidarsi buttandosi da questo manufatto. I ponti di corso Europa che percorro senza accorgermi che sono ponti veri o quelli commoventi che attraversano il Bisagno o appaiono vergognosi tra i casoni delle vallette laterali affresco incancellabile della speculazione.
La nostra quotidianità di genovesi, a piedi o su due o quattro ruote è macinare salite discese e ponti che fino alla tremenda vigilia di Ferragosto ci erano completamente indifferenti. Il crollo ci ha costretti a fare i conti con un città frammentata, fatta a pezzi più o meno grossi, piena di fiumi-torrenti e micidiali rii su quelle vallette insidiose di cui parlavo prima. Torbella, Sturla, Fereggiano, Cerusa, Leira, Varenna, Rexello, Molinassi, Cantarena, Lagaccio, Carbonara, Torbido, Veilino, Nervi, Castagna, Bagnara. Ponti e ponticelli che appaiono improvvisi per nascondersi, appena scavalcato il piccolo canyon, entro una giungla di arbusti. Molto genovesi, selvatici.
Ponti che si vedono (osservate la città dal mare!) ponti nascosti tra le creuse de ma’.
Vuol dire qualcosa avere tutti questi ponti? Forse sì. Significa unire il diviso, collegare, far comunicare, cancellare dalla solitudine.
Ora che il grandissimo genovese Renzo Piano ha gettato sul tavolo cuore e intelligenza, tutto mi sembra più vicino. Piano è un continuo ribollire di idee e passioni, di nostalgia mai pietosa e di futuro. Ha detto e mi ha commosso, una cosa straordinaria: che questo ponte dovrà essere “alla genovese”. Di carattere. In questa definizione c’è tutto: il coraggio e la sobrietà, la parsimonia e la sicurezza, la concretezza e la ruvidezza, l’amore vero per la città. Grazie Renzo!
Dunque caro Toti, insista: Morandi subito. Non molli.
cronaca
Vita quotidiana sui ponti di Genova: subito un Morandi ma come dice Piano "alla genovese"
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