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Ordinario di diritto costituzionale all'Università di Genova
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Si avvicina il momento del voto per il 4 dicembre. Abbiamo chiesto a due illustri costituzionalisti le ragioni del Sì e le ragioni del No. A sostegno della riforma, ecco l'intervento del professor Pasquale Costanzo, ordinario di diritto costituzionale all'Università degli Studi di Genova

Con l’approssimarsi della data del referendum sulla revisione costituzionale, i toni del conflitto politico diventano sempre più aspri, rischiando di sovrastare l’oggettiva esigenza che gli elettori vadano al voto informati. La specifica intenzione di questo mio intervento è dunque quella di offrire un contributo al chiarimento degli esatti termini delle varie questioni, magari prendendo spunto proprio dalla formulazione del quesito referendario, accusato da alcuni di essere solo suggestivo o addirittura menzognero, e con cui dovremo confrontarci nella cabina elettorale. Del resto, credo che sarebbero davvero pochi coloro a cui non piacerebbe che ciò che è enunciato nel quesito fosse davvero dentro la riforma o che comunque si incominciasse finalmente a percorrere una strada virtuosa.
Procediamo rapidamente per punti.

1. Soppressione del CNEL – Qui è impossibile negare la circostanza (ed infatti nessuno la contesta). È un bene? È un male? Regna un pressoché unanime consenso che sia un bene, anche se in realtà è un organo quasi sconosciuto. Potremmo dire che stia proprio qui il problema: non lo si conosce perché, nonostante i buoni propositi, ha dimostrato di non essere di alcuna utilità. Ma questo stesso fatto attesta che non tutto quello che è stato immaginato dai padri costituenti sia stato veramente azzeccato. Del resto, a dispetto delle postume e strumentali santificazioni odierne, erano, per loro fortuna, uomini anch’essi.

2. Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni – Anche qui nessuno è in grado di contestare seriamente il risparmio: piuttosto, si cerca di metterne in luce l’esiguità. Anche se fosse vero (ma in realtà la misura del risparmio è difficile da contabilizzare), si potrebbe obiettare che è meglio poco che niente. Sebbene agli incontentabili, che non mancano mai, possa apparire poco, noi siamo invece convinti che la strada sia spianata, visto che la riforma offre numerose occasioni di contenimento della spesa, derivanti, oltre che dalla già menzionata abolizione del CNEL, dalla diminuzione del numero dei parlamentari, dalla soppressione dei consigli provinciali, dalla fissazione di un tetto alle retribuzioni dei consiglieri regionali, dalla costituzionalizzazione del principio di trasparenza della pubblica amministrazione, dall’accentramento del coordinamento della finanza in capo allo Stato (che potrà inoltre intervenire anche nelle materie regionali quando lo richiedesse la tutela economica della Repubblica), dal finanziamento integrale delle funzioni degli enti territoriali e locali sulla base di indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno reali, nonché dalla minaccia di mandare definitivamente a casa gli amministratori locali quando venisse accertato lo stato di grave dissesto finanziario del loro ente.

3. Riduzione del numero dei parlamentari –
Qui davvero è sufficiente guardare i numeri: si passerebbe dagli attuali 945 parlamentari elettivi a 730 con un abbattimento del 70% del personale politico del Senato e comunque del 23% del totale. Si potrebbe anche aggiungere che, da un certo punto di vista, il fatto che 95 dei 100 senatori svolgerebbero un doppio mandato contribuirebbe ad ulteriormente deflazionare il complessivo “paniere” di parlamentari.

4. Superamento del bicameralismo paritario – Attenzione, non superamento del bicameralismo tout court, che non è tra gli obbiettivi della riforma, ma solo di quello attuale in cui i due rami del Parlamento sono cloni l’una dell’altra. Il superamento del bicameralismo paritario (ossia il fatto che le due Camere facciano, come ora, sempre e comunque le stesse identiche cose) può, senza possibilità di contestazione, vedersi nel fatto che:
· la funzione di controllo politico è totalmente attribuita soltanto alla Camera, chiamata essa sola a votare la fiducia al Governo;
· la funzione legislativa è in principio attribuita alla sola Camera per la quasi totalità delle materie;
· la funzione d’inchiesta è attribuita alla sola Camera, salvo per quanto riguarda le autonomie, in cui è coinvolto il Senato;
· la funzione finanziaria e di bilancio è totalmente attribuita alla sola Camera;
· è sparita la convocazione automatica di una camera quando venga convocata l’altra;
· ogni ramo del Parlamento elegge i propri giudici costituzionali.
Per converso, il Senato gode esso solo di funzioni specializzate.
La parità dei due rami del Parlamento è stata quindi eliminata, salvo che per alcune materie, su cui la voce della autonomie è stata ritenuta imprescindibile, a dispetto di coloro che lamentano l’affievolimento del loro ruolo. Si tratta di un’evidenza corroborata da dati obiettivi.

5. Revisione del Titolo V – Anche qui si tratta di circostanza vera, ciò che semmai viene criticato è, per così dire “il verso politico” della revisione, ossia l’indubbia propensione della riforma ad un riaccentramento di alcune importanti funzioni.
Tuttavia è stato bene osservato come il regionalismo, nel nostro Paese, soprattutto dopo la riforma costituzionale del 2001, non abbia corrisposto alle aspettative, finendo così per deludere anche i suoi più strenui sostenitori. È noto, peraltro, come la Corte costituzionale sia stata in questi anni sovraccaricata del compito di trovare un punto di equilibrio, che, a ben vedere, è proprio ciò che viene fotografato dalla riforma.

6. Organi di governo e di garanzia –
Gli organi di governo non vengono toccati dalla riforma. Semmai, l’intento è quello di migliorarne il rendimento, aprendo nuovi e più trasparenti spazi di azione al posto di quelli di cui si è finora abusato (si pensi ai famigerati decreti legge). In questo senso deve leggersi la possibilità per il Governo di utilizzare la corsia. Si tratta pertanto della ricerca dell’efficienza e di un’adeguata capacità di reazione in un sistema ormai globalizzato e accelerato, e non invece di una deriva autoritaria, la cui esistenza è stata negata persino dai costituzionalisti che si sono schierati contro la riforma. L’azione dello stesso potere legislativo, come già ricordato, viene avviato su binari di semplificazione (una sola camera svolge la maggior parte del lavoro) e di celerità (sono indicate tempistiche certe per l’approvazione delle leggi). Con riguardo al Presidente della Repubblica – il cui ruolo di garanzia rimane intatto – l’obbiettivo è di evitare il ripetersi di vicende come quelle che hanno visto protagonista, suo malgrado, Giorgio Napolitano. Infine, la Corte costituzionale vede entrare fra le sue fila anche la componente regionalista, a riprova che il disegno complessivo della riforma non è affatto ostile alle regioni stesse.

In questo quadro, le obiezioni alla riforma non possono muovere plausibilmente da ragioni di metodo o di sistema (parlamento delegittimato, assenza di più ampia condivisione o lacune nella procedura) o di merito costituzionale (presunto sfregio alla democrazia o alle autonomie territoriali), ma solo da contrapposizioni (beninteso del tutto legittime) e radicali (ad es., l’on. Salvini ha confessato che sarebbe persino pronto a votare “sì” se ciò portasse all’allontanamento del Presidente del Consiglio) o da critiche di carattere tecnico (queste sì, meritevoli di un confronto razionale).

Ma, per dirla con Voltaire “il meglio è nemico del bene” e siamo sinceramente persuasi che sarebbe bene non perdere un’occasione forse irripetibile per dare l’indispensabile e non più procrastinabile spinta di rinnovamento e di progresso al nostro Paese*.

*Qualcuno potrebbe osservare che non è stata presa in considerazione la legge elettorale. Ma non è su quella che si vota il 4 dicembre. D’altro canto, la riforma si sposa bene anche con altre leggi elettorali, compresa quella che potrebbe sostituire l’Italicum se i politici si metteranno d’accordo, spontaneamente o costretti dalla Corte costituzionale. Anzi, prevedendo un apposito ricorso da parte dei parlamentari, la riforma stessa esige, se approvata, che il problema venga immediatamente affrontato. Ma attenzione, ciò potrebbe non accadere, se vincesse il “no” e la Corte decidesse che non vi sono le condizioni per dar seguito alle questioni di costituzionalità sollevate dai Tribunali di Messina e di Torino.