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Il ruggito
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Dell’assai intrigante trasmissione condotta lunedì sera da Mario Paternostro – “Macaia”, ore 21, Primocanale – la frase che più mi ha colpito l’ha pronunciata Simone Farello: “La verità è che noi siamo diventati un partito di potere”. Dove per noi si intende il Pd, del quale Farello è capogruppo in consiglio comunale. Come risposta al quesito di fondo – “Siete ancora contenti di vivere a Genova?” – non è male. E di pari passo è andata l’Invettiva di Franco Manzitti, che ha fatto le pulci all’inerzia suicida, figlia delle divisioni, del Partito democratico.

Credo che sarebbe un peccato disperdere, o troncare lì, un dibattito che ha il merito di alzare i veli sulla tribolazione di costruire un futuro credibile per la sesta città d’Italia. E allora aggiungo una tessera al mosaico. La mia impressione – e lo dico da non genovese innamorato di Genova – è che la Superba abbia smarrito il senso proprio di questo appellativo. Non, come spesso si dice, la capacità di pensare in grande, bensì quella di tradurre in grande questo pensiero. Che ogni tanto fa capolino, ma poi viene piegato alle logiche del potere costituito, che è politico, ma anche economico e finanziario.

Dopo il famoso Waterfront finito fra le tante lettere morte genovesi, ora è il turno del Blue Print. La matita è sempre quella dell’archistar di Renzo Piano, che immagina un fronte mare dall’Acquario alla Fiera come un unico percorso. Bello, bravo, bene, bis, ma le Riparazioni Navali non si toccano! Avete mai visto la creazione di un’area ludico-turistica che nel bel mezzo deve conservare un pezzo di pur benemerita (per altre ragioni) industria “pesante”?
E se andiamo agli Erzelli, altro dossier decennale, scopriamo che tutto nasce, si inceppa e va a strappi perché l’idea originaria serve a risolvere il problema di un genovese-azienda (Carlo Castellano e la sua creatura Esaote, per valorizzare dal punto di vista immobiliare l’attuale sede di Sestri).

Salvo lasciare il cerino in mano all’Università, presentata come colpevole del fallimento del progetto se non trasferisce Ingegneria sulla collina che il terminalista Aldo Spinelli s’è venduto a peso d’oro per spostare i suoi container. “Serve per riunificare Ingegneria e dare migliori servizi agli studenti” è il mantra. Solo che agli studenti nessuno ha chiesto se vogliono andare a Erzelli e soprattutto nessuno considera che vorrebbero migliorati altri servizi – tanto per citare: abitazioni dignitose a prezzi equi, magari più laboratori, maggiori legami con il mondo del lavoro, docenti che vanno alle lezioni e non trascorrono il loro tempo a fare attività privata – e che tutto sommato se ne impippano del fatto che Ingegneria sia articolata in varie location.

A proposito “do sciu Aldo”, amatissimo ex presidente del Genoa: appena il senatore Maurizio Rossi ha avuto l’ardire di sostenere che le concessioni portuali andrebbero assegnate con gare, come dice l’Ue, per alzare il livello di competizione e farla finita con certe rendite di posizione, apriti cielo! E il presidente dell’Aurorità portuale, Luigi Merlo, prima quasi canonizzato, diventa Belzebù in persona per il solo fatto di farsi venire il dubbio che Rossi abbia ragione e si sia spinto a chiedere chiarimenti al ministro competente, ossia Graziano Delrio.

C’è un sistema di potere che certamente è collassato, con la fine – per varie ragioni – di protagonisti come l’ex ministro Claudio Scajola, l’ex banchiere di Carige Giovanni Berneschi, l’ex governatore ligure Claudio Burlando, l’ex Segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Ma le architetture sottostanti, cioè le lobby che hanno prosperato in questi anni e che pesano come la macaia su Genova (e sulla Liguria) sono ancora tutte lì, intonse e operanti nel difendere i loro interessi. Di oggi e di domani.

Sarebbe limitativo immaginare che i genovesi vogliano fuggire da Genova perché la città è sporca (ed è drammaticamente vero) o perché in alcuni suoi angoli gli immigrati irregolari la fanno da padroni. Questa è la propaganda della politica, che ha due ministri al governo – Roberta Pinotti e lo spezzino Andrea Orlando – che faranno bene il loro mestiere alla Difesa e alla Giustizia, ma finora si sono mostrati totalmente incapaci di incidere per il futuro di Genova e della regione. A parte il sussulto d’orgoglio dei genovesi intervistati da Primocanale, che han detto di non voler mollare la loro città, sarebbe bene prestare attenzione ai giovani – uno di Bari e uno di Sanremo – che dalla Festa dell’Unità fanno sapere che a Genova ci sono arrivati e vogliono restarci.

Perché le loro origini sono in città minori rispetto alla Superba? Non credo. In realtà, perché a Genova esistono potenzialità inespresse, soffocate dal conservatorismo imposto da un partito che si dichiara progressista – il Pd – con la complicità di un centrodestra che nel capoluogo è inesistente nei fatti (Forza Italia quasi non pervenuta, della Lega riparliamone esaurita la spinta dell’effetto Salvini, pur avendo un generoso e valido esponente di punta come Edoardo Rixi) e di una classe imprenditoriale principalmente fatta di “prenditori”, come ebbe ad affermare con geniale e velenosa battuta l’ex sottosegretario Alberto Gagliardi.

Adesso il simbolo di questo conservatorismo diventa Paolo Odone, appena incoronato per la quarta volta alla presidenza della Camera di Commercio. Ma ha preso 28 voti su 33, chi glieli ha dati questi voti? E dove stava il segretario provinciale del Pd Alessandro Terrile, che ora grida allo scandalo ma è rimasto silente, lui come tutti, quando questo (presunto) scandalo si concretizzava? Il presidente di Confindustria Genova, Giuseppe Zampini, sostiene che rifiutando la presidenza agli industriali la Camera abbia rifiutato il cambiamento. Ne dubito, avendo davanti agli occhi imprenditori, genovesi e non solo, che non sanno rinunciare a un eurocent dei loro profitti per il bene comune.

Ma Odone, semmai, è una conseguenza del conservatorismo genovese. Il simbolo è piuttosto il sindaco Marco Doria, arrivato per amministrare in modo diverso e che invece non solo non amministra, rispolvera pure le pratiche della Prima Repubblica: verifiche di maggioranza, numeri appiccicati con la colla per far passare le pratiche più delicate e via con un galleggiamento da amministrazioni balneari di pura marca democristiana. Con la patente di persona perbene, siamo tutti d’accordo, ma condita dalla supponenza di ritenere ingenerosi e ingiustificati i giudizi di chi ritiene che la svolta potrebbe imprimerla con le dimissioni, rompendo lui gli schemi.

Al cospetto, un predecessore come Giuseppe Pericu diventa un gigante, difatti quasi quotidianamente beatificato, sebbene le sue le abbia pur combinate, se ripensiamo a partecipate tipo Aster, al Carlo Felice lasciato in eredità sebbene la situazione manifestasse già evidenti criticità, all’Amt della presidenza Zanelli mai messa in discussione. Sia chiaro, ho stima e simpatia per Pericu, tant’è che prevale il giudizio positivo. Ma che cos’ha poi fatto? Ha speso bene i molti denari avuti a disposizione.

In un Paese nel quale la regola sono diventate le ruberie e le inefficienze in effetti è una “notizia”, una nota di merito. Ma se osserviamo la cosa con spirito laico, mi verrebbe da dire europeo, Pericu ha solo fatto il suo. Pura normalità. E’ la macaia che opprime la città a rendere superlativo anche ciò che non dovrebbe esserlo. E la macaia, ce lo insegna il meteo, di solito se la porta via una bella folata di vento. Chi vuol cominciare a soffiare?