cronaca

Ipirato alle due spedizioni del 1996
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Tutti con gli occhialini, questa mattina, per la visione in 3D di Everest dell’islandese Balthazar Kormakur che apre fuori concorso la 72esima Mostra di Venezia. Un film molto ambizioso, sulla carta, che parla di rischi incalcolabili, difficoltà enormi, sfide impossibili da prevedere: ciò che per quasi un secolo avventurieri di tutto il mondo hanno affrontato tentando di raggiungere la vetta più alta e pericolosa della Terra.

La pellicola è ispirata ad un episodio accaduto nel 1996 quando due distinte spedizioni, sfidando al limite delle loro capacità una delle più feroci tempeste di neve mai affrontate dal genere umano, pagarono la loro audacia col tributo di undici morti.

Si può dire, dal punto di vista del glamour, il prodotto ideale per l’ouverture di un Festival, pardon di una Mostra, che se no qui a Venezia si offendono: un manipolo di divi hollywoodiani (Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Emily Watson, Josh Brolin e – ma in ruoli secondari, tanto che non sono neppure sbarcate al Lido – Robin Wright e Kiera Knightley), un blockbuster di grande afflato spettacolare costato 65 milioni di dollari e una vicenda dai contorni tali da appassionare il grande pubblico, per di più anche un po' italiana dal momento che a parte qualche ripresa in Nepal il grosso è stato girato in Trentino e a Cinecittà. Qualcosa che si vorrebbe intimo ed epico ma che in realtà intimo ed epico non è.

Certo, c’è tutto quello che è lecito attendersi da pellicole di questo tipo: dai paesaggi mozzafiato (il regista in conferenza stampa ha detto che non ha praticamente fatto ricorso al computer ma il dubbio rimane) ai vertiginosi movimenti della macchina da presa. Quello che però manca è invece ciò che dovrebbe formare la base di ogni buon film, e cioè l’anima. Così il paragone con un’altra pellicola di genere alpinistico presentata proprio qui a Venezia nel 1991, Grido di pietra di Werner Herzog, risulta impietoso.

E non si cerchino significati metaforici al di là della vicenda, perché di certo non c’era bisogno di questo film per spiegarci che ognuno di noi, dentro di sé, ha un piccolo o grande Everest da scalare tutti i giorni.