Una città sporca, pervasa da una tristezza crescente e da un declino che pare inarrestabile, ben fotografato da aziende che vanno via, giovani con la valigia in mano e problemi enormi come quelli dei rifiuti e dei trasporti locali, di un teatro trasformatosi in lusso insostenibile e via elencando un “cahier de doleance” ai limiti dell’infinito. Si legge Roma, ma si scrive Genova. E sì, perché se togliamo la mafia che lucra(va) nei suoi soliti indegni modi, non si vede proprio differenza fra la capitale e il capoluogo ligure.
Marco Doria è una persona perbene, con quarti di nobiltà che sembravano renderlo perfetto per guidare una Superba dove ancora si conserva il gusto di certe declinazioni sociali. In più la sua elezione era frutto del vento della novità, che soffiava forte in una Genova che non voleva rompere con la sua tradizione di centrosinistra, ma non si riconosceva più nel partito maggioritario e nei suoi candidati alle primarie, leggasi l’allora sindaco uscente Marta Vincenzi e l’attuale ministro della Difesa Roberta Pinotti. Doria era figlio di un gruppo di intellettuali che s’erano assunti l’onere di lanciarlo per rompere gli schemi e consentire che la città, finalmente, voltasse pagina. Nel segno di una politica con la maiuscola.
Da quel 21 maggio 2012 molta acqua è passata sotto i ponti. E, ahinoi, anche sopra. Si può dire che la delusione è altrettanta? Se si vuole essere intellettualmente onesti bisogna dirlo, abbandonando l’eventuale istintiva simpatia che si può avere per questo sindaco. Con franchezza: amministrare la sesta città d’Italia comporta scelte che non si sono viste, un rigore di rapporti che non appartengono alla probità personale bensì alla consapevolezza di dover fare ogni giorno un’autocritica nei fatti, anziché tentare improbabili difese d’ufficio per ogni criticità che si presenti e non si affronti. Decidendo di galleggiare alla meno peggio e così arrivando a tradire lo stesso spirito che aveva marcato l’inizio di questa storia.
Da un antico e profondo conoscitore delle cose politico-amministrative ho raccolto questa “summa” di pensiero: “Per quanto ci provino con buona predisposizione d’animo, i nobili hanno il difetto di non riuscire a vivere davvero la realtà. Sono come i professori che avrebbero dovuto rimettere in piedi questo Paese, invece abbiamo visto tutti come sono andate le cose”. E’ un’idea opinabile come tutte, ma Doria è contemporaneamente nobile e professore. Vuoi vedere che c’entra qualcosa? Per esempio quando s’è messo di traverso all’impianto di smaltimento dei rifiuti, o quando ha traccheggiato sulla Gronda, non riuscendo ad affondarla perché non dipendeva (tutto) da lui o, ancora, quando pensava di risolvere la questione del mercato abusivo di Piazza Cavour semplicemente spostando i venditori illegali. O sulle vicende altrettanto amene della Fiera, con annesso Salone Nautico.
Non si può neppur dire che manchi l’impegno, è che l’amministrazione di Palazzo Tursi ha proprio un difetto endemico: gente perbene che, però, mostra – a parte qualche rara eccezione – una scarsa o inesistente concretezza e nell’affrontare i problemi si avvita su un mondo immaginario che fa a pugni con quanto la gente chiede e si aspetta. Così ci sono assessori che pensano di poter svolgere il mandato part time o altri facendo la spola tra Genova e la Germania, situazioni che da sole danno il senso della surrealità complessiva.
In questo contesto, anche le mosse politiche lasciano perplessi. Nelle ultime settimane, Doria e la sua giunta hanno raccattato una maggioranza consiliare grazie al sostegno di qualche reduce ex Idv o di ciò che resta dell’Udc. Al di là delle persone, quale credibilità c’è ad affidarsi a forze che sono state giudicate impresentabili quando hanno sostenuto Raffaella Paita, la candidata governatore del Pd poi sconfitta da Toti, salvo essere ripescate dai Dem per puro tatticismo politico, che difatti i liguri hanno punito premiando il centrodestra?
Nobile e professore, con tutto ciò che ne consegue in termini di sostentamento personale e familiare, non si capisce perché Doria debba mettere la faccia su certe situazioni o si incaponisca a tenere appiccicata col nastro adesivo una maggioranza che tale non è più nei fatti. Avendolo un po’ conosciuto, per via del settimanale appuntamento a Primocanale con le domande dei genovesi, non credo neppure che sia una affezione al potere. Non sta nelle sue corde, questa debolezza. Forse ha davvero ragione il mio occasionale interlocutore: è che certe cose un marchese non le vede proprio. Anche se sgrana gli occhi.
Doria ha certamente pescato uno dei periodi peggiori per fare il sindaco di una grande città. Ma non tutto si può spiegare con la crisi. Il valzer al vertice della multiutility Iren, tanto per citare un caso di nomine non sempre finite bene, declina incertezze di ben altro genere, come la mancanza di visione sul futuro della città: se l’archistar e senatore a vita Renzo Piano verga un disegno, il Blue Print dopo il famoso Waterfront, tanto basta per dire che quella è la Genova 2.0. E il sindaco e i suoi assessori che idea hanno, invece?
Mistero, anche se forse il problema è il mio. E magari tale è anche un’altra cosa che non capisco e cioè perché Doria non faccia la cosa più innovativa che da lui ci si aspetterebbe come logica conseguenza del modo in cui a suo tempo venne presentato e si presentò: siccome non mi presto al massacro di Genova, ridiamo la parola alle urne. Le dimissioni, arte assai poco praticata nel Belpaese, sarebbero un vero punto di rottura rispetto al passato e inchioderebbero alle sue responsabilità anche il Pd. Non tutte le colpe, infatti, stanno in capo al primo cittadino.
Dove sta il partito maggiore mentre a Tursi lo sport preferito è quello del rinvio? A parte qualche rara voce, la sua autoreferenzialità permane anche dopo il varo di una nuova segreteria provinciale che assegna solo nuovi pesi alle varie componenti. Insomma, se Matteo Renzi mostra un totale disinteresse, al punto da non aver ancora nominato il commissario del Pd ligure, non è che sul territorio, come usa dire adesso, le cose vadano molto diversamente.
A Tursi è alle porte una verifica di maggioranza, rito stantio inventato nella Prima Repubblica che di regola era la premessa a un’alternativa: la caduta della giunta oppure lo stanco prolungarsi dell’agonia fino alla scadenza del mandato. Di fronte a uno scenario fattosi insostenibile, tutto ciò che il Pd genovese sta partorendo è la seguente pensata: usciamo con le ossa rotte dalla elezioni regionali, quindi se ci inventiamo di far cadere Doria prendiamo un’altra scoppola appena si vota. Solo pochi, pochissimi, oppongono un’osservazione di buon senso: un’amministrazione che nasce tonda non muore quadrata, quindi i prossimi due anni saranno analoghi ai primi tre. Per la serie: non si farà quasi nulla, l’incazzatura dei genovesi monterà, i calcinacci del fallimento di Tursi cadranno principalmente sul Pd e al ballottaggio ci andranno centrodestra e M5S.
Parliamo del 2017, quando sarà superato il turno amministrativo del prossimo anno, che porterà al voto città come Milano e Napoli e probabilmente, checché se ne dica, Roma. Per il Pd genovese, un conto sarebbe avere il traino di una consultazione di portata nazionale, altro cimentarsi, successivamente, solo sulle beghe all’ombra della Lanterna. Da quel che s’è visto, i dem si preparino pure all’ennesimo disastro. Chissenefrega, verrebbe da dire. Solo che di mezzo ci sono Genova e i genovesi. E allora, tacere non si può.
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Genova in declino, il sindaco della svolta svolti con le dimissioni
L'editoriale
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