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“Ora basta, da 10 anni bloccate la città”, tuona dalle colonne del Secolo XIX Claudio Burlando (a valle del dibattito di ieri pomeriggio presso la sede del giornale sulla questione “Erzelli”) nei confronti dell’Università di Genova e della Scuola Politecnica, perpetuando la vulgata ai liguri - che si è tentato di trasformare in un vero e proprio mantra - che siano i grigi e miopi ingegneri dell’Accademia, arroccati in Albaro, a impedire lo sviluppo industriale e occupazionale del territorio.

Uno sviluppo arditamente, e con una buona dose di arroganza d’antan, paragonato da qualcun altro dei partecipanti all’incontro alla classe e allo stile imprenditoriale di Giovanni Ansaldo, una vulgata perfino riportata tempo fa sulle colonne del Corriere della Sera da Edoardo Segantini, su “segnalazione” di persone legate al giro milanese di McKinsey, dal quale – ma guarda un po’! – proviene pure Yoram Gutgeld, consigliere economico del premier Matteo Renzi, il “sollecitatore” dell’incontro al MIUR del 20 gennaio scorso fra tutte le parti per risolvere la questione.

Ma al titolo urlato del Secolo XIX fanno da contraltare i dati e i ragionamenti pacati del Rettore Paolo Comanducci e del preside Aristide Massardo: con l’aggiunta dello “svarione” giornalistico (spia allarmante del mantra di cui sopra) dei 30-40 mila trasferimenti al giorno, quando tutti hanno sempre riportato il numero corretto che è, invece, di 3-4 mila al giorno. Questo non rileva naturalmente per il sindaco Marco Doria, il quale, dopo ponderata riflessione sulle critiche rivolte alla propria ardita metafora collina Erzelli-Monte Bianco e alla corrispondente improbabile funivia di Erzelli (quella nuova del Monte Bianco invece è quasi pronta!), deve aver pensato che, in fondo, per salire su una collina di quell’altezza (poco più di 100 metri), basti una portantina con qualche servo trasportatore, come probabilmente avrebbero fatto i suoi avi.

Massardo e Comanducci hanno detto cose semplici e reali, riportando il discorso alla logica norma-economia-tecnologia, con grande pacatezza, sinergia e forza comunicativa, segnando un cambio di passo rispetto al passato, una vera e propria pietra miliare da qui in poi, facendo a pezzi la vulgata una volta per tutte. Il Rettore ha saggiamente subito intrapreso il metodo noto come problem solving e, mettendo in mano all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Genova l’intero processo, ha già definitivamente risolto con successo e in poco tempo la prima questione dirimente: la compravendita di cosa futura non si farà perché semplicemente è, nel caso di specie, proibita dalle leggi vigenti europee e nazionali.

Questo era peraltro noto dall’inizio della questione. E allora perché si è voluto insistere su quella strada? E’ stata forse l’Università a proporla e a spingere in tal senso? Pure dopo il parere identico dell’AVCP? Non è stato questo uno – forse il più importante – fattore dei 10 anni di ritardo della scandalizzata lamentatio di Burlando? Comanducci ha detto un’altra cosa importante: che tutto quanto sarà deciso dall’Ateneo sarà per la Scuola Politecnica e non contro la Scuola Politecnica. Potrebbe un Rettore essere più saggio di così e usare parole diverse?

Massardo ha richiamato non soltanto la nota questione della pure difficile logistica (3-4mila portantine al giorno quanti servi trasportatori necessiterebbero?), ma soprattutto le carenze e la vaghezza del progetto industriale e della visione imprenditoriale (Ericsson e Siemens sono in affitto sulla collina e secondo la logica delle multinazionali possono andarsene in trenta secondi, e il paragone con il caso di Sophia Antipolis in Francia non regge, perché già superato come paradigma almeno dal 2001), che, vale la pena dirlo ancora in chiaro, non è e non può essere il “mattone”.

Tutto nacque, infatti, dalla legge n. 181 del 1989 che prevedeva per Genova “Misure di sostegno e di reindustrializzazione in attuazione del piano di risanamento della siderurgia”. L’urlo di Burlando e di altri e, per contro, le parole pacate di Comanducci e di Massardo ricordano la fiaba di Hans Christian Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”. La fiaba parla di un imperatore vanitoso, completamente dedito alla cura del suo aspetto esteriore, e in particolare del suo abbigliamento. Un giorno due imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo; ma per non essere giudicati male, riferiscono all'imperatore lodando la magnificenza del tessuto.

L'imperatore, convinto, si fa preparare dagli imbroglioni un abito. Quando questo gli viene consegnato, però, l'imperatore si rende conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché; attribuendo la non visione del tessuto a una sua indegnità che egli certo conosce e, come i suoi cortigiani prima di lui, anch'egli decide di fingere e di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. Col nuovo vestito sfila per le vie della città di fronte a una folla di cittadini i quali applaudono e lodano a gran voce l'eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché nemmeno essi e sentendosi essi segretamente colpevoli di inconfessate indegnità.

L'incantesimo è spezzato da un bimbo (Comanducci e Massardo) che, sgranando gli occhi, grida con innocenza: "ma il re è nudo!”. Ciononostante, il sovrano (Burlando) continua imperterrito a sfilare come se nulla fosse successo.