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E adesso? La domanda dovranno finalmente porsela anche a Roma. E primo fra tutti dovrà porsela Matteo Renzi. Con l’obbligo di trovare una risposta. Una risposta convincente. Stavolta non potrà fare spallucce, sfoderare la sua ironia con una battuta ad effetto, liquidare la questione come l’ennesima gufata. No.

Sergio Cofferati lascia il Pd. Se ne va sbattendo la porta e ponendo problemi cruciali. Tre su tutti: la questione morale introdotta dai brogli alle primarie di domenica scorsa, che hanno costretto la commissione dei garanti ad annullare il voto in tredici sezioni; una revisione, con regole più certe e limpide, delle stesse primarie; il quadro delle alleanze, che Cofferati solleva per l’inquinamento da destra avvenuto non solo nella consultazione elettorale di coalizione, ma anche a proposito di alcuni comportamenti, come la presentazione di un libro a Casa Pound da parte di Simone Regazzoni, portavoce di Raffaella Paita.

Sono argomenti politicamente pesantissimi, che avranno eco – più di quanto non l’abbiano già avuta – a livello nazionale e che minacciano di terremotare l’assetto interno del Partito democratico. Fino al punto da incrociare pericolosamente la discussione sulla scelta del nuovo Presidente della Repubblica? Possibile, non certo. Le prossime ore e i prossimi giorni daranno una risposta. Ma se anche le consultazioni per il Quirinale non saranno influenzate dal “caso Liguria”, si tratterà solo di una breve tregua. Perché già sull’Italicum e sulla riforma del Senato, quanto avvenuto alle primarie liguri, con le relative conseguenze, tornerà alla ribalta.

Sta accadendo ciò che Renzi più temeva. Solo che quei timori erano legati all’eventuale successo di Cofferati, non alla sua sconfitta. Il modo in cui essa è maturata, il modo in cui Raffaella Paita ha vinto, invece, fa ancor più da detonatore. Il segretario del partito e premier e l’europarlamentare ex leader della Cgil avevano stretto un patto, indiretto e a distanza: io non metto il becco nella contesa, tu non utilizzi la Liguria come laboratorio politico per dare fiato alla minoranza del Pd. Fino a domenica quel patto ha funzionato, perché le cose sono andate esattamente in quel modo.

Qualcosa, però, ha cominciato a incrinarsi quando il ministro Roberta Pinotti, nel corso di una delle ultime manifestazioni a sostegno di Paita, se n’è uscita così: “Non c’è nulla di male che il Nuovo centrodestra appoggi Raffaella, a Roma governiamo insieme”. Non la persona, Cofferati, che ora ascrive la responsabilità di quella sortita allo stesso Renzi. E al capo del partito rimprovera il silenzio non soltanto su questo punto, ma anche sui brogli e sulle derive politiche inconciliabili con la storia delle persone che vengono da sinistra. Un silenzio assordante, che spinge Cofferati al passo estremo: “Non posso stare in un partito che non ha niente da dire su tutte queste cose”.

Lo strappo è clamoroso. E tanto clamore lo accompagnerà. L’ultimo, disperato tentativo di ricucitura, messo in atto dai vertici liguri dei democratici, guidati da Giovanni Lunardon, sembra con l’intervento anche del ministro Andrea Orlando nei panni di mediatore, non ha sortito alcun effetto. Cofferati ne ha fatto e ne fa una questione di coerenza. Ritiene la catena degli eventi sviluppatisi prima e dopo domenica scorsa indigeribile. Se sarà direttamente impegnato in un progetto alternativo alla candidatura di Raffaella Paita, insieme a quella Rete a Sinistra che sta provando a mettere insieme le proprie anime, spesso ancora troppo discordanti, lo si vedrà.

Di sicuro Cofferati diventa automaticamente, forse persino al di là della sua stessa volontà, l’alfiere di tutta quell’area che fino ad oggi si è mossa avendo diversi riferimenti, quali Civati, Cuperlo, D’Alema, Fassina, Bersani.
Quest’area, vasta tanto in Parlamento quanto nel Paese, ora potrebbe aver trovato un punto di riferimento unico. Che avvenga proprio nel momento in cui Cofferati lascia il Pd sbattendo la porta è solo l’aspetto paradossale della vicenda. Anzi, potrebbe essere la pietra angolare di uno smottamento ben più ampio: l’ex leader della Cgil dimostra che alle parole possono seguire i fatti. E altri, finora ancorati a un dissenso solo verbale, potrebbero seguirne l’esempio. Stavolta Renzi non potrà fare finta di niente. E applichi la memoria che può ricavare dai libri di storia: nel bene e nel male, Genova ha una solida tradizione di città che precorre i grandi eventi e le grandi svolte nazionali.