Cosa fare dopo una tragedia? Emozionarsi, scendere in piazza, indignarsi, sentirsi parte di una rivolta. Dopo un attentato o un terremoto, dopo un omicidio o dopo un’alluvione, meglio se dopo due eventi drammatici consecutivi provocati dall’uomo e dalla natura, siamo pronti a reagire. L’opinione pubblica, in massa, applaude. Solidarietà a parole, tweet, minuti di silenzio, inni alla pace. Tutto bello. Commuovente.
C’è qualcosa che non mi convince e, un po’, mi innervosisce: è il compiacimento che ognuno di noi prova nel reagire così, con sdegno a costo zero, dopo un dramma che tocca realmente vite umane. Tutti bravi a prendere le distanze da gesti di folli o criminali, tutti pronti a dare un appoggio morale a chi ha subito crolli, danni e vittime.
Ma poi siamo anche quelli che se c’è da costruire in zona non edificabile, cosa vuoi che succeda a un metro dal fiume? Se c’è da fare un ampliamento, a cosa serve tutta questa burocrazia delle norme anti-sismiche? Se prendi una multa, belin questi vigili! Il senso civico, il senso di appartenenza alla comunità svanisce in un solo secondo.
Ecco. Quando la società è colpita da un dramma, prendiamo le distanze da chi l’ha provocata, e ci sentiamo assolti. Quando dobbiamo dare un piccolo contributo per evitare che accadano tragedie, o solo per far sì che si possa stare tutti un po’ meglio, allora no, le regole sono un fastidio, l’obiettivo è trovare una giustificazione a una colpevolezza palese.
Cronaca
Tragedie, compiacimento e i veri colpevoli
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