Politica

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Come tutti gli ultimi Governi anche il Governo Monti continua a glissare su una questione di fondo: come possa ripartire la crescita di un Paese, ormai industrialmente colonizzato, privo di grandi imprese, le uniche in grado di produrre innovazione e sviluppo e di trainare l’intero sistema. In Italia mancano soprattutto, dopo averle svendute, le aziende a partecipazione statale dell’alta tecnologia e latitano grandi imprenditori tesi alla competizione e non già, come accade oggi, alla logica del profitto immediato e sicuro.

Chi può creare oggi in Italia rapidamente migliaia di nuovi posti di lavoro? Le presunte liberalizzazioni dei tassisti, degli edicolanti, dei carrozzieri, dei benzinai, dei farmacisti? Mi sembrano rischiosi diversivi per prendere tempo in attesa di un miracolo, che non ci potrà essere. Solo un temporaneo ma massiccio intervento dello Stato può darci qualche speranza (come nel caso Fincantieri).

Se il Novecento italiano ha visto il successo dello ”Stato imprenditore” ciò è dovuto anche alla pesante inadeguatezza al rischio, all’innovazione e alla fragilità finanziaria delle famiglie del nostro capitalismo. Se all’inizio del secolo scorso i governi liberali furono convinti fautori dell’intervento pubblico nell’economia non penso ciò sia dipeso dal predominio di ideologie stataliste: la nazionalizzazione delle ferrovie, la costituzione dell’Ina e del Crediop (poi Bnl) furono dettate da una sorta di virtuoso pragmatismo in un clima economico certamente non segnato dal pluralismo e dalla concorrenza, ma dal protezionismo. Così come negli anni Trenta lo Stato italiano fu costretto a intervenire con l’Iri per impedire il dissesto del nostro sistema bancario e industriale a seguito anche del tracollo finanziario “privato” di Wall Street.

Supplenza indispensabile confermatasi nel secondo dopoguerra quando i grandi gruppi imprenditoriali dell’epoca ribadirono le loro insufficienze rispetto alla necessità del rilancio economico e della ricostruzione del Paese. In realtà la modernizzazione e l’emancipazione dell’Italia si deve principalmente all’Iri e all’Eni, in parte all’Enel, anche come leva per migliaia di piccoli e piccolissimi imprenditori privati, non certo all’Efim, ma neppure ai grandi capitalisti, come analizzano mirabilmente nei loro libri Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni?” e Gianni Dragoni in “Capitani coraggiosi”. Non credo che l’Italia, alla metà degli anni Ottanta, potesse essere annoverata fra le grandi potenze industriali del pianeta, dopo Usa, Giappone, Germania e Francia, ma davanti agli inglesi, senza l’apporto determinante dell’impresa a partecipazione statale (straordinaria esportatrice di tecnologia), la quale era spesso dovuta intervenire in soccorso dei privati falliti, persino nel caso di affermati marchi alimentari.

Purtroppo l’obbiettivo di troppi grandi industriali, a cominciare dalla Fiat, è stato e continua ad essere la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti tirando sfarzosamente a campare. Certo uno sport ostentato anche da moltissimi “boiardi” di Stato come ha certificato ”Mani pulite”. Ma, qual è stato il risultato delle “privatizzazioni”, in molti casi veri e propri regali? Riduzione del debito pubblico? Zero. Aumento delle opportunità di lavoro? Zero. Salto della qualità dei servizi? Zero. Nei settori dove lo Stato guadagnava il privato italiano guadagna di più (autostrade, telefonia, alimentare, servizi, alta tecnologia), ma alle spalle della collettività. Purtroppo ci sono poche notizie di aziende pubbliche risanate e rilanciate dal privato. Gli affari sono andati ancora meglio per i gruppi multinazionali come sanno tristemente i genovesi con Elsag Bailey, Italimpianti, Raggruppamento Ansaldo (fatta eccezione con Malacalza per Ansaldo Magneti).

Abbandonata la competizione industriale i nostri imprenditori vorrebbero “arditamente” lanciarsi nella tranquilla gestione delle bollette dei servizi pubblici e nella loro finanziarizzazione. Certo, tutti abbiamo sotto gli occhi i limiti di gestione di molte aziende locali. Resta il problema che l’obbiettivo primario dei servizi pubblici essenziali, a partire dall’erogazione dell’acqua, non può essere il profitto, ma il miglior servizio possibile al cittadino al minor costo possibile per lui. Affidati ai privati chi garantirebbe il controllo democratico di questi servizi?

Alberto Gagliardi
Vice presidente Consiglio comunale di Genova-Italia dei valori