cronaca

L’architetto racconta la sua emozione: “E’ un’opera collettiva, un vascello bianco che è il ritratto di Genova”
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Il sole scalda la piazza di Parigi e Renzo Piano, dalla finestra del suo studio, osserva le piante fiorite. C’è tranquillità. Una strana tranquillità. L’aria è pulita e ossigena la mente. L’architetto genovese, pur lontano dalla sua città è in continuo contatto, tutti i giorni , con i collaboratori che stanno lavorando al ponte sul Polcevera, a poche settimane dal passaggio delle prime automobili.


Il 14 agosto del 2018, quel tremendo 14 agosto, sembra così lontano.

“Quella tragedia mi è rimasta in testa. Ancora adesso, sono passati quasi due anni eppure sono quelle cose che ti sconvolgono la vita. Quando ci penso e accade spesso, resto ammutolito. Non ho pensato subito di disegnare il ponte. Quando, il giorno dopo il crollo è venuto da me il sindaco Bucci, era una conversazione di quelle che si possono fare in questi momenti, una specie di conforto reciproco , per tenerci su. Lui ancora si domandava come fare per ripristinare rapidamente il passaggio di questa valle. Rapidamente, ma senza fare progetti. La riflessione era su che cosa sarebbe stato opportuno fare così, come consiglio generale, come suggerimento. Figurati Mario, uno che è giornalista che cosa fa di fronte a un fatto incredibile come quello? Pensa a come potrebbe raccontarlo. Un architetto fa lo stesso, pensa a come si potrebbe ricostruire, ma ero ben lontano dall’idea di progettarlo io quel ponte”.

Quale è stata, allora, la prima tua riflessione?
“ La prima reazione è stata una reazione di buon senso, cioé dire al sindaco che ci voleva un ponte che chiedesse il permesso di passare attraverso quella valle, che non è una valle normale. E’ una valle molto abitata, molto vissuta, non è un ponte che passa su una vallata vuota o su un fiume. Questo passa su una valle alluvionale, ampia, larga un chilometro, abitatissima e vissuta da tempo immemore. Da secoli. Quindi la mia prima riflessione è stata questa. Trovare una soluzione che andasse a poggiare i piedi la sotto, ma chiedendo il permesso”.

Il permesso? Perché? A chi?

“Vedi, in genovese si dice: Scià scuse, se peu? Si può? Questo lo puoi fare utilizzando portate non eccessive, di cinquanta metri perché se provi a passare con le tue dita come fanno i bambini sulla carta geografica, scopri che vai avanti a pezzetti, uno dopo l’altro e l’unico punto in cui non lo puoi fare a pezzetti perché è di cento metri è quando passi sul Polcevera o sulla ferrovia. Noi abbiamo fatto così”.

Perché acciaio e non cemento?

“L’acciaio è molto più affidabile nel tempo. Il cemento si pensava che fosse eterno. Nel dopoguerra. Invece abbiamo scoperto che non è così. Il cemento consente all’acqua specialmente in ambiente salino di penetrare e attaccare l’armatura. Ma negli anni ’50 e ’60 non si pensava così. Da lì a immaginare il ponte come una nave ci vuole poco. Soprattutto per uno come me che è nato a Genova. E’ come un grande vascello bianco che attraversa la vallata a una quota di cinquanta metri. E’ un ponte che è visto molto dal di sotto. Sai quando si dice stare sotto il ponte? Ecco sotto il ponte ora è un luogo poco allegro, poco interessante, ma in questo caso specifico sopra il ponte e sotto il ponte sono luoghi di uguale importanza. E’ una considerazione che non fanno tutti mentre in questo caso il sotto il ponte diventa un elemento fondamentale.”

Quindi è anche un ponte complesso, proprio per questo suo essere urbano, piantato dentro la città.

“Sì è un ponte cittadino, un ponte urbano. Complicati gli appoggi e non deve sconquassare tutto. Deve muoversi con prudenza, comunque come ti dicevo prima, chiedendo il permesso. Il progetto è stato fatto tenendo presente di dover fare tutto in tempi brevi, quindi dividendo il cantiere in due. Un cantiere edile, dove si fa la logistica e una parte in un cantiere navale dove si lavora l’acciaio. In modo che mentre tu fai la parte logistica, cioè le fondazioni, le pile, contemporaneamente altrove si preparano i tronconi di questa nave. Appena i muratori hanno finito ecco che si comincia il montaggio. Così i tempi sono stati ampiamente ridotti, ma questa è una soluzione che è venuta fuori lavorando con un’ équipe, Si tratta davvero di un grande lavoro collettivo”.

Si è parlato per questa operazione così rapida di un modello Genova, addirittura di un miracolo, abituati in un Paese dove tutto è molto lento e massacrato da una eccessiva burocrazia.

“Nessun miracolo! Nel momento in cui prevale su tutto la competenza, non tanto la mia, ma la competenza di tutti gli altri, dagli ingegneri agli strutturisti, dai carpentieri ai saldatori, ai geometri, c’è sta una vittoria della competenza sulla incompetenza. Non sono mai state sovvertite le regole. Non è stato fatto con quella che si definisce normalmente la deregulation. Il sindaco-commissario ha applicato tutte le regole europee. Il sindaco certamente ha avuto dei poteri importanti, ma non è vero che per fare rapidamente, non in fretta, ma rapidamente, si debbano cancellare tutte le regole. Ci mancherebbe! Non c’è nessun miracolo! Vorrei ribattere che è semplicemente la prova che quando ci si mette buona volontà e buon senso e la solidarietà e tanta competenza l’Italia è capace di queste cose. Peccato che normalmente per tirar fuori questa capacità ci voglia la tragedia. Se vuoi essendo genovesi potremmo dire che c’è orgoglio, una sorta di genovesità fatta di poche parole, tanto mugugno, poi lavorare e basta. Nessuno si è mai tirato indietro. Lavoro collettivo e ancora oggi è così. Fare e fare bene".

Questo ponte diventa un segno molto forte nella città e nella periferia.

“Purtroppo si parla di periferia, anche se in realtà geograficamente questa non è una periferia, ma il centro di Genova. Se guardi su una cartina, la Valpolcelvera è il centro tra il Ponente e il Levante di Genova. Venti chilometri di lunghezza. E la valle divide la città storica e nobile dalle tante cittadine del ponente. Il ponte ha spezzato e lacerato Genova al centro. E’ una zona periferica perché è stata maltrattata. Non trattata con affetto o amore. Ma è sempre stato un luogo molto bello, un luogo soleggiato. Mio padre che era nato a Certosa mi portava da piccolo qui, dove ci sono gli aironi. Senza contare che è la sola vera grande area di cui Genova dispone a terra. E questo ne fa un’area strategica molto molto importante. Genova è schiacciata tra monte e mare. Se guardi una foto aerea vedi subito che questa vallata è l’unica area vuota. Giusto che questo vascello che ora l’attraversa lo faccia in una maniera dignitosa. Diventa un segno riconoscibile anche se in qualche maniera è il ritratto della città. Per questo ogni tanto ho citato Giorgio Caproni, che ha scritto Litania, Genova “città di ferro e di aria”. Già il fatto che questo ponte che è una specie di nave sia battuto dal vento. Il vento ha disegnato questa forma. E la sera al tramonto la luce, il sole che scende comincia a carezzare questa carena e la forma prende un suo fascino particolare. Ma attento, è il ritratto di Genova perché ha la sua serietà, ma una forza, non solo perché i pezzi da cento metri pesano milleottocento tonnellate e per tirarli su ci vuole gente davvero in gamba. Tutto è stato fatto abbastanza in silenzio e con uno spirito che bene rappresenta la genovesità, forse con qualche mugugno, ma si è fatto con solidarietà, senza divisioni e con competenza di tutti, dal primo all’ultimo. Io penso ai manovali e porterò questa opera nel cuore per tutta la vita. Vince su tutto l’orgoglio del fare. Costruire un luogo civico è un atto positivo, un segno di ottimismo. Figurati costruire un ponte che è crollato.!”