cronaca

La cupa esultanza sui social per la fine di un cacciatore ucciso da un cinghiale
6 minuti e 30 secondi di lettura
 Ora ti voglio dire: c'è chi uccide per rubare e c'è chi uccide per amore, il cacciatore uccide sempre per giocare. Versi di una canzone scritta in un tempo in cui non c'era chi esultava, se un cinghiale ammazzava il pensionato che lo aveva preso a fucilate.

Non ho mai sparato nemmeno ai barattoli delle giostre; da bambino, della pistola ad acqua mi piaceva solo non il gesto stilizzato, ma quello strano gusto alla plastica che assumeva il liquido; non ho cacciatori in famiglia e, se vogliamo dirla tutta, anche come cercatore di funghi ero stato bocciato all'unanimità da padre e padre del padre, dopo che alla prima uscita tra Carro e Castello ero finito in una buca e per tirarmi fuori uno dei due si era preso un malanno alla schiena. Niente prosecuzione della dinastia, insomma.

Però è anche vero che dei cacciatori conosciuti, per lo più operai metallurgici della val di Vara che in settimana lavoravano con mio padre in fabbrica e a volte alla domenica venivano con noi in treno a Genova a vedere il Doria, non me ne ricordo uno che non fosse un bravuomo. Magari litigavano sulla Muti o la Dionisio, su Berlinguer o Almirante, su Celentano o Morandi, però su fagiani e cinghiali erano sempre d'accordo. In settimana a scuola, a ricreazione come nelle assemblee, sentivo invece i compagni dell'ultimo e penultimo anno parlare seri e tetri di sparare a questo o a quello, ad Almirante come a Berlinguer oppure a Montanelli, mentre qualcuno nelle grandi città sparava davvero.

Ecco, oggi qualcuno di quelli che era andato a caccia non di cinghiali ma di magistrati, giornalisti, politici ogni tanto lo vedo in tv o sui giornali, posata la chiave inglese o la Skorpion scrivono romanzi, ricordano con toni da "Amici miei" i bei tempi in cui andavano a sparare ai magistrati politici e giornalisti e sotto sotto si autoassolvono perché i modi magari erano sbagliati ma la causa era giusta. I compagni di fabbrica di mio padre chissà dove sono finiti; il figlio di uno di loro, che era alle medie con me, ha rischiato anche lui di essere ammazzato da un cinghiale allo stesso modo del cacciatore di Sassello, se l'è cavata ma eccome se se n'è prese di ingiurie sui social, per fortuna ha avuto modo di leggerle.

Insomma, oggi vedo che per un terrorista in pensione, che magari ai tempi dei "formidabili quegli anni" aveva spedito sottoterra qualche cristiano, c'è più indulgenza che per un cacciatore ammazzato da un ungulato. Eppure andavano a caccia - per esempio - anche Fausto Coppi, Puccini, Boskov, Hemingway, Moser, Dumas, Baggio che pure è buddhista. Però confesso che quelli che vanno a caccia non li ho mai davvero capiti. E' che sono tante le cose mai capite che questa non è mai stata in cima all'agenda. Di certo rimane dopo un'altra cosa che non comprendo e che un po' mi spaventa: l'esultanza social, anche sulla nostra pagina Facebook Primocanale pagina ufficiale, di quelli che, quando un cacciatore muore come pochi giorni fa a Sassello, intonano canti di gioia, magari usando parole come "Karma" che forse di sfuggita conoscono per averla orecchiata nella canzone di Gabbani premiata a Sanremo e i più attempati in quella di Boy George. Diamine, era pur sempre un uomo, un anziano pensionato, vista la sua foto faceva perfino tenerezza. Avrà avuto figli, nipoti forse. Però andava a caccia. Quindi se muore durante una battuta di caccia si aprano le danze. Boh.

La caccia è qualcosa che non mi appartiene, come una lingua straniera: perciò tutto quello che la riguarda mi fa lo stesso effetto di quel racconto di Kafka in cui l'io narrante vede due uomini che si rincorrono, si chiede: il primo scappa dal secondo che lo vuole ammazzare? Oppure inseguono entrambi un terzo? O ancora non sanno niente l'uno dell'altro? Ecco.

Però la caccia fa parte della storia dell'uomo. E anche della cultura. Due soli esempi. Penso a "Cacciatori nella neve", una delle opere d'arte più belle e tristi che abbia mai visto, che ha ispirato alla lontana anche un film da piegarsi in due dal ridere. Un film svedese, eh, titolo: "Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza". E anche De Niro e Walken e Cazale: se al posto della caccia al cervo mettete - che so - le freccette o il calciobalilla o gli scacchi, che cosa resta de "Il cacciatore", quel monumento all'amicizia che non mi fa più ascoltare Can't take my eyes off you senza che mi venga il malincuore?

Resta che c'è chi plaude alla morte di un cacciatore. E' qualcosa di inspiegabile, che forse attinge al pozzo oscuro di uno strano odio dell'altro, una bieca allofobia che sta trascolorando nell'odio del genere umano. Un conto è pensare a usare meglio le risorse naturali, a riequilibrare eticamente certi comportamenti del sistema dell'approvvigionamento alimentare di un essere naturalmente onnivoro come l'uomo; altro è negare l'antropocentrismo, applicando gli schemi antirazzisti intraumani per confutare il fatto storico che l'homo sapiens si sia conquistato il diritto a governare il mondo. C'è una strana tendenza, illogica e antistorica, ad applicare estensivamente il controverso principio dell'eguaglianza tra gli umani, professando l'eguaglianza tra gli esseri umani e gli animali e - perché no? - le piante.

Da questo, la condanna morale della caccia. Eppure sovente si invoca il "rispetto delle culture altrui" per tollerare, se non giustificare, condotte incommendevoli, dal taglio delle mani ai ladri alla sottomissione della donna (comprese le mutilazioni genitali), fino al cannibalismo. Già, ci sono ancora popolazioni che lo praticano, il cannibalismo: è la loro cultura. E allora come la mettiamo? E perché a questa "dittatura del relativismo", a suo tempo denunciata da un professore tedesco di filosofia morale poi chiamato a fare il papa, deve sfuggire la caccia? Certo, il successore del prof. Ratzinger ha preso tutt'altra strada, lasciando perfino proiettare l'immagine gigantesca di una scimmia sulla facciata di San Pietro.

E' una brutta cosa sparare ai cinghiali, certo. Ma schiacciare la zanzara, oppure la mosca che ci disturba? Dalla scomunica della caccia il passo logico e coerente successivo, oltretutto, è la rinuncia a una parte pur essenziale dell'alimentazione. E torniamo al relativismo: in Sudcorea mangiano i cani, con voluttà speculare al raccapriccio che provano i centrafricani che, giunti in Italia, vedono gli autoctoni mangiare il gorgonzola, dove muffa e - cit. Pippo e Pucci - grilli sono parte qualificante.

Per non parlare di quel che credevo fosse uno scherzo; e invece ci sono davvero correnti di pensiero in ascesa dedicate alla sofferenza delle piante. Ma se il pomodoro soffre quando viene strappato dalla pianta e figuriamoci se trasformato in conserva, addio pizza.

C'è qualcosa che suona sordo, in questo amore spassionato per gli animali che finisce per diventare odio verso i propri simili. C'è un po' troppa cattiveria insomma in questa bontà. Ricorda la caricatura nicciana cristallizzata da Gozzano: "in verità derido l'inetto che si dice / buono, perché non ha l'ugne abbastanza forti". E poi insomma: noi umani, è vero, in definitiva facciamo abbastanza schifo, ma non sopravvalutiamo gli animali. Prendete il gatto, che gli Antichi Egizi avevano elevato a divinità. Bòn, il gatto puccioso e petaloso che fotografiamo è il fratellino in miniatura del leone che ci sbrana: lo farebbe anche lui, glielo impediscono solo le dimensioni. Se potesse diventare dieci volte più grande di quel che è per soli dieci minuti, ti saluto umano. Per fortuna il gatto non ha bisogno di divorarci, si accontenta di averci resi schiavi.