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Accade, quando la realtà è scabra o inabitabile, di trovare rifugio nei libri. Succede poi che alcuni libri caschino in una realtà diversa da quella in cui erano stati scritti, simile invece a quella che raccontano. Se i romanzi a volte sono generi di conforto quando non bussole, la storia di un’astuta salvazione dal male collima con quel che può servire per guadare l’ansia di un improvviso presente di antiche ombre.

Salvarsi a vanvera di Paolo Colagrande, uno scrittore dei pochi che si limitino a scrivere, è appunto il rendiconto di una spudorata bugia a fin di bene. Resta pur sempre roba da falsari, ma in tempo di ragioneria dello sterminio tutto fa. E’ uscito in libreria per Einaudi (nella foto, l'immagine di copertina) a marzo, quando a Oriente il cannone tuonava da meno di una settimana, così faceva uno strano effetto leggere di una vicenda del finire della seconda guerra mondiale, quasi ottant’anni fa, quando si ricomincia a paventarne una terza. Ed è forse questo spaesamento che ha reso il libro un animale selvatico difficile da addomesticare, sullo scaffale delle sere o meglio delle notti. Scritto bene, con lieve alternanza tra densità concettuale finanche talmudica e andantino colloquiale come al tavolo di un bar; e scritto con la gravità di chi guarda nel pozzo del tempo e trova le radici del suo tronco, come se il centro dell’ebraismo fosse altrove, ma non un altrove qualsiasi, proprio l’altrove.

In questa storia, che poi è la storia di una scombiccherata combriccola di israeliti che, capeggiati da un artigiano, inscenano agli occhi dell’occupante tedesco l’ingegnosa pantomima di una miniera di carbone frequentabile soltanto da simili o meglio interpreti di un arcano mostro che la custodisce, per tirarla per le lunghe fino all'arrivo degli alleati evitando la deportazione, il tutto modulato in un lessico via via inventato con l’autoironia della disperazione, spiccano le coordinate inesorabili del destino e della fuga.

Alcuni lettori ci hanno visto “Train de vie”, altri la sublime sagoma di Chaplin, funambolo in equilibrio tra riso e pianto. Forse il richiamo è davvero Mihaileanu, giudeo balcanico esule dappertutto come Mahler: ma non nel suo lavoro più noto bensì nel “Concerto”, dove la mistificazione attinge al sublime e la cornice, non a caso, è russa. I fantasmi di Mosca, il Bolscioi, il concerto per violino di Tchaikovskij, la persecuzione antisemita sotto le lune cupe di Stalin.

Come il regista rumeno affronta l’orrore uscendone col volto impolverato dalla biacca di Grock, così Colagrande (piacentino del 1960, Premio Campiello Opera Prima 2007 con Fìdeg, finalista sempre al Campiello nel 2015 con Senti le rane e nel 2019 con La vita dispari) recupera i sogni del popolo da cui viene e con le sue trame perdute tesse un nuovo sogno. E ti avvince a una storia inverosimile eppure autentica, cantilenata nelle cadenze della Bassa, che quando finisce ci resti male perché anche rimettendo il disco daccapo ormai conosci la musica e la seconda volta non sarà mai come la prima. Son quasi quattrocento pagine, un po’ di meno, ma c’è chi se l’è fatte durare più di un mese, per arrivare al momento in cui il libro se ne va e resti tu a ricordarlo, a pensarci, a parlarne. O, come stavolta, a scriverne per suggerirlo. Non cambierà quello che accade attorno a chi lo legge e poco o nulla manometterà della sua vita. Ma è un libro che fa bene all’anima, perché ti aiuta ad esser meno incredulo proprio sull’anima, che esista e serva e magari rimanga.