Commenti

4 minuti e 46 secondi di lettura

Quando vedo passare una bicicletta a pila, penso che sembri un mezzo moderno ma che in realtà abbia cominciato a circolare mezzo secolo fa. E' infatti della fine degli anni Sessanta la diffusione endemica della malsana idea che i problemi più sono gravi e meno vadano affrontati davvero, bensì aggirati.

Si cominciò da un'evidenza pesante: non tutti gli studenti vanno bene allo stesso modo, perché non tutti sono dotati, così come non tutti siamo portati per la danza, il calcio, il canto, la recitazione, mettiamoci anche il giornalismo, oppure semplicemente essere belli e belle. Allora si pensò di rimediare a questa ingiustizia abbattendo la selettività della scuola e dell'università, così tutti sarebbero arrivati alla laurea: pazienza se confondendo il diritto all'istruzione con il diritto al diploma, pazienza se facendo arrivare tutti al traguardo la mobilità sociale s'inceppò in modo drammatico, perché al momento di trovare un posto nel mondo sarebbero tornate a prevalere le condizioni sociali di partenza, il censo familiare, le clientele ereditarie, l'appartenenza. Ed è quello che è successo.

Quindi si passò alla malattia mentale, indubbiamente un evento dei più disgraziati che possa fulminare una persona e la sua famiglia. Allora davanti alla malattia mentale da un giorno all'altro che si è fatto? Negarne l'esistenza, o se esisteva era un prodotto dell'alienazione capitalistica, e poi ognuno di noi in fondo era matto chi più chi meno: quindi liberi tutti, anche se poi nei decenni si è dovuto - sulla spinta delle tragedie fomentate dall'utopia, infinitamente più gravi e più numerose rispetto ai benefici di un obiettivo integralista e irrealistico, che avrebbe dovuto ridimensionarsi a un più ragionevole miglioramento del trattamento dei pazienti - ripristinare misure necessarie di contenzione e restrizione, col solito espediente della cosmesi onomastica: adesso i manicomi criminali si chiamano "residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza", anzi REMS che fa più elegante, ma la sostanza è sempre quella, ovvero prigioni per condannati afflitti da malattia mentale. Illuminante, dai dialoghi postumi di Leonardo Sciascia con Domenico Porzio appena pubblicati da Adelphi, l'appellativo che riserva al santificato e intoccabile Basaglia il disincantato scrittore siciliano, che in quanto fratello di un malato di mente spintosi al suicidio sapeva di cosa si parlasse.

Che cos'è, in fondo, la stupidità? La convinzione che questioni complicate possano avere soluzioni semplici, immediate, alla portata di tutti. C'è per esempio qualcuno così scemo o cattivo da pensare che la guerra sia bella oppure che la povertà sia piacevole? Forse qualcuno ci sarà pure, ma ormai non lo si può nemmeno più mandare al manicomio perché appunto i manicomi sono stati aboliti, forse ancora in carcere fino a quando non si riterrà - come già si dibatte - superata la detenzione come misura penale. Però l'uomo purtroppo si confronta con queste due sciagure da quando ha assunto la posizione eretta, pare un trecentomila anni fa ma anche se fosse trentamila o tremila poco cambierebbe ai fini della presente riflessione, e da allora non è riuscito a eliminare né la guerra né la povertà. A contenerle forse, in tempi e modi peraltro limitati, magari ce l'ha fatta; ma a cancellarle mai, forse perché non si può, forse perché l'aggressività e la competitività sono innate nella natura umana. Specie a dar retta a chi pensa che siamo animali come gli altri, solo un po' più evoluti.

Ecco, di fronte a una bicicletta a pila vedo in quel mezzo, apparentemente innocuo, la maledetta saldatura tra le predette utopie (la rimozione nominalistica e velleitaria del brutto della vita) e quella nefasta che imperversa nel presente: il falso mito di un ambientalismo miracoloso, purificatore di secoli di dissennatezza, eppure tragicamente disconnesso dal reale, un reale che ha appena fatto irruzione nelle nostre vite spuntando dalla buca delle lettere in forma di bolletta della luce; falso mito fondato sull'idea che l'elettricità possa sostituire fulmineamente benzina, gasolio, carbone e metano e non parliamo per carità di nucleare, indipendentemente dalla sua natura di energia di secondo grado, ovvero inesistente in natura a fini industriali e quindi bisognosa di essere prodotta in base ad altre fonti. E nessuno che affronti, anche se timidamente una voce significativa come Michele Serra su "Repubblica" vi ha fatto cenno di recente e di sfuggita un paio di volte, il vero problema che trascina tutti gli altri: la decuplicazione dell'umanità negli ultimi soli trecento anni, da un miliardo a dieci miliardi di esseri viventi. Tutto, ma proprio tutto sta qui; e non ce ne vogliamo accorgere.

E poi suvvia: la bicicletta a pila è una moda, ma ha senso solo per i commercianti che infatti hanno visto rilanciare un comparto in crisi. Fino a pochi decenni fa l'industria della bicicletta parlava esclusivamente italiano, dai prodotti finiti fino a tutti ma proprio tutti i settori della componentistica (telai, cambi, ruote, gomme), adesso sopravvive nei marchi di estrema nicchia per non dire lusso, oppure è colonizzata da padroni stranieri. Da tempo la Bianchi in mani svedesi, ultimo a cedere è stato Ernesto Colnago.

Soprattutto la bicicletta a pila è un inganno, specie nelle versioni che somigliano a un vero mezzo da corsa ma che hanno nel tubo diagonale ingrossato il segreto proibito che una volta era stato perfino adombrato a proposito o meglio a sproposito di Fabian Cancellara, il fuoriclasse lucano nato a Berna e quindi plurivincitore per la Svizzera e non per l'Italia. E' un inganno la bicicletta a pila, sia perché non è più una bicicletta ma si spaccia per tale pur essendo un ciclomotore, sia soprattutto perché sposta o meglio rimuove il senso del limite. Se vuoi arrivare in cima a una salita, ci devi arrivare coi tuoi mezzi. Ed è emozionante e appagante, se sali con le tue sole gambe, contare sui paracarri i chilometri che mancano. Una sensazione che forse, in questo presente sempre più virtuale ovvero finto, non vale più provare.