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Viene in mente Paolo Ferrari, con i suoi due fustini al prezzo di uno. Stavolta il concambio è sette anni al Quirinale contro uno di governo.

I politici, che si chiamano così perché fanno politica, hanno capito che il “supertecnico” Draghi ha fatto la bocca all’idea di andare al Colle; solo che, essendo finito a Palazzo Chigi per il fallimento della politica, adesso non si può aspettare anche riconoscenza: avete presente quando la maestra chiamava il primo della classe a leggere il suo tema ai compagni somari? Ecco, adesso un’aula piena di ultimi della classe può prendersi la rivincita - dopo aver finto di appoggiarlo per convinzione, quando il solo motivo del sostegno era la paura del voto anticipato - su chi li aveva commissariati.

L’ambizione personale dell’ex banchiere è legittima, al pari tuttavia di quella dei partiti di liquidare con lui quasi un trentennio di “tecnici”, stagione dell’antipolitica - peraltro spesso ambigua - cominciata con Ciampi, suo predecessore a Palazzo Koch, e proseguita da Dini a Monti fino a Conte, emblema quest’ultimo della suprema contraddizione dell’apolitica che si fa istituzione, e appunto a Draghi.

In parallelo con la trattativa per il nome da votare al quarto scrutinio, corrono i mercanteggiamenti per un esecutivo a scadenza 2023, con dodici mesi di tempo per un altro artifizio di sartoria legislativa elettorale - nel segno irragionevole del ritorno al proporzionale, che vuol dire pirateria irresponsabile d’aula, scollamento definitivo tra eletti e sempre più rari elettori, nuova fiammata di spesa pubblica - atto a contare sommersi e salvati, dopo la riduzione da 945 a 600 dei posti a Montecitorio e Palazzo Madama, ennesima mortificazione autoinflitta da una classe dirigente con la coscienza sporca, in una sequenza penitenziale demagogica cominciata con l’abolizione dell’immunità parlamentare.

Già, l’immunità. Uno dei tanti principi fissati dai Costituenti e via via abrasi da un edificio istituzionale, che aveva una sua armonia progettuale e che oggi non si trova né il coraggio di archiviare né di difendere davvero. A seconda di chi governi, la Costituzione viene brandita come baluardo o denigrata come ostacolo alla “governabilità”.

L’ipotesi di un trasloco di Draghi al Quirinale non è eretica in sé. Diventa scomoda qualora si voglia conciliare nell’unico modo possibile l’assunto teologico di partenza di questa esperienza di governo (“E’ l’unico uomo adatto a governare il Paese”) con la logica obiezione della conseguente inopportunità a privare l’esecutivo di una cotale guida: ovvero con il dogma che l’attuale primo ministro continuerebbe il suo lavoro dal Colle, piazzando a Palazzo Chigi un suo avatar, anzi una sua Alexa per rispettare la parità di genere.

È fantascientifica l’idea di instaurare, a Costituzione parlamentarista vigente, un presidenzialismo imperniato sulla figura di un uomo che sarà pure degnissimo, ma che la prossima volta potrebbe - sempre che si continui a far votare il popolo, prospettiva già considerata accantonabile da illustri editorialisti, persuasi che con Draghi si sia arrivati alla “fine della storia”, ovvero al governo perfetto, troppo perfetto per essere messo a rischio da sconsiderati elettori - essere uno dei babau oggi agitati.

La nostra Repubblica nasce in opposizione culturale alla retorica del capo unico, peculiare del regime, ed è stata scritta proprio per impedire che si ripeta l’esperimento; così è surreale che, mentre la metafisica antifascista si fa sempre più assordante man mano che  la natura storica del mussolinismo si allontana, a un secolo esatto dalla marcia su Roma ci sia chi voglia consegnare il Paese a un altro uomo solo al comando. E non importa che la Carta fondamentale assegni al capo dello Stato funzioni poco più che simboliche, con i poteri di governo in capo a un esecutivo espresso  e sostenuto dal Parlamento.

Se si vuole superare tutto questo, se si considera l’attuale architettura statuale superata, non serve installare alla presidenza della Repubblica un superuomo o presunto tale, che irradierà il suo carisma dal Colle fino a piazza Colonna. Serve piuttosto una nuova assemblea Costituente, questa sì eletta col sistema proporzionale puro, incaricata di redigere un nuovo manuale di istruzioni per l’uso dell’Italia. Ma la deve votare il popolo, non deve essere calata dall’alto. Altrimenti sarebbero passati invano gli ultimi trent’anni, anzi cento.

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