Commenti

4 minuti e 5 secondi di lettura

Genova ha sempre saputo nascondersi al meglio, per questo ci darebbe comunque fastidio vederla svelare. Figuriamoci se qualcuno si azzarda a declinarla nello stanco canone a gettone del luogo comune, dell’iconoclasta trasformato in santino, del volantinaggio.

Eppure bisognerebbe guardarla attraverso le estravaganze, le stranezze, l’inconsueto. Partire dal Mackenzie, l’edificio più incongruo della città voluto da uno straniero e costruito da un sognatore, poco distante dalla stazioncina di una ferrovia che sembra portarti sulle Alpi e dal capolinea della funicolare che ti innalza quasi tra le nuvole, quando ci sono.

Dalle parti di Principe ci sono poco distanti un trenino che diventa ascensore e un ascensore vestito da trenino: l’impianto ibrido di Montegalletto senza eguali al mondo e la cremagliera di Granarolo, che per guidare il vagoncino ci vuole lo stesso brevetto da macchinista per volare sulla direttissima, e sale e scende col rumore lento del tempo quando passa veloce. E c’era perfino una guidovia, mezzo talmente obsoleto che il correttore si rifiuta di scrivere alla prima: ne resta il solco che le ruote dei ciclisti salvano dalla vegetazione.

La guidovia ascendeva alla Guardia, dove secoli di naufragi e salvazioni trovano sunto nella sala degli ex voto, ingenui segni di pericoli scampati in strada e in mare o in ospedale, in devozione a quella Madre che appare quasi a ogni angolo del centro storico, nella meravigliosa chiesa delle Vigne a ridosso della quale visse da ragazzo il futuro scopritore della teoria della relatività generale. E’ bello pensare Einstein giovanetto a ingolosirsi di dolci non lontano da dove riposa Stradella, ucciso per troppo amore suo e per gelosia altrui.

Fra tante navi che vanno e vengono ce n’è una di sassi e cemento che non può partire, eppure se n’era andata lo stesso, vicino al giardino delle rose e alla ferrovia là dove la città finisce. Ha dovuto quasi sbriciolarsi perché se ne muovessero a compassione, richiamandola alla navigazione degli innamorati e dei nostalgici di tutto quel che vuol dire il mare.

Genova è anche Pietro Germi che sconta l’ergastolo perpetuo del suo anticonformismo, un anticonformismo vero e non di maniera infatti costato ostracismi e silenzio sul suo genio. E anche il nume abusato, un uomo che per sua e nostra fortuna era più uomo e meno monumento di quanto lo abbiano iconizzato quando ormai non poteva più difendersi con una sibilata freddura geniale delle sue, avrebbe detto: ma andate invece a vedere di che cosa sono capaci per esempio il mio amico Max Manfredi, oppure Giampiero Alloisio, i Sensasciou, i Blindosbarra, i Meganoidi. Montale invece lo hanno dimenticato, ma lui li aveva preceduti scegliendo Milano per la vita e Firenze per sempre. Qualche tempo fa sembrava scadesse la concessione a San Felice a Ema, non era vero, più “disguido del possibile” di così.

In questa città ci sono alcuni dei caffè più belli. Chi li conosce sa di cosa si parli, gli altri meglio non fare nomi ché poi ci va troppa gente. Tutti si precipitano per esempio a Boccadasse, senza sapere magari nulla del genio appartato di Edoardo Firpo, accordatore di pianoforti e incastrato dai delatori per una battuta in dialetto su Mussolini, che aveva affidato alle onde buie il suo “mignin” in una poesia che morde l’anima, e del suo martin pescatore che spezza uno specchio di cristallo col becco affilato; ma pochi scavallano capo di Santa Chiara, lambendo i due castelli a picco sulle onde, per incantarsi della quiete di Vernazzola, un posto dove sembra sempre notte anche a mezzogiorno d’estate.

Questa è una città che più ci vivi e meno la comprendi. Ti sfugge. Si dissimula. Mima se stessa e come il gatto dello Cheshire sparisce nel suo sorriso. Così andrebbero ripescati dal pozzo del tempo i luoghi trasfigurati del vagabondaggio di Gassman e Momo in “Profumo di donna”, o ancora quelli rinominati eppure riconoscibilissimi ne “Il filo dell’orizzonte”: a marzo saranno dieci anni dalla scomparsa di Antonio Tabucchi, che molto aveva amato questa città e che qualcuno qui ama ancora. Meriterebbe una traccia meno labile della memoria che si sfolla.

Memoria che ha il suo forziere nelle statue fuligginose di Staglieno, dove si aggira un angelo con un’ala soltanto e un piede spezzato, che era il protettore maldestro ma volenteroso del primo quotidiano di carta;  qui si omaggia anche l’anima della Ortese, la più acuta voce del secondo Novecento, che mai fu genovese e quindi è venuta qui per sempre.

Genova è qualcosa di molto diverso da Genova. A chi mi chieda cosa vedere qui, ancor prima del caleidoscopio fin qui nominato, sempre rispondo: un volto custodito in una teca di cristallo, all’ultimo piano ricostruito di un edificio rinascimentale bombardato e rimpannucciato. A Palazzo Spinola di Pellicceria, nell’“Ecce Homo” di Antonello, c’è tutto il dolore del mondo, in forma di domanda senza risposta e il mistero di quel che siamo e non sappiamo.