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Il fascino del centro storico svanisce con il passare degli anni, per un suo abitante che ne fu innamorato
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Mi innamorai del centro storico ai tempi dell’università, quindi quarant’anni fa. Prima di frequentare le aule di giurisprudenza a Balbi 5, di Genova conoscevo sì e no le strade che, dalla stazione Brignole o dai caselli Nervi ed Est, portavano allo stadio. Poi via Venti e De Ferrari, stop. Fino a fine liceo, ero sceso a Principe una sola volta nella vita. Ero e resto un provinciale, prima pendolare e poi immigrato, solo da qualche anno posso dire di conoscere abbastanza bene questa città, anche perché amo misurarla a piedi, avendo oltretutto venduto la macchina non appena ero venuto a viverci.

Avevo rinunciato all’automobile perché, grazie ai soldi messi faticosamente da parte con i primi stipendi da giornalista, avevo trovato casa nei vicoli. Avevo dovuto aspettare cinque anni di risparmi, prima di comprare un piccolo bilocale dal soffitto a travi alto due metri, praticamente una scatola da scarpe, perché al giornale dove lavoravo, appena entrato, uno dei vecchi mi disse “Peccato, l’anno prossimo chiudiamo”. In venticinque anni al Mercantile, ogni anno il ritornello era “l’anno prossimo chiudiamo”. Figuriamoci se in quelle condizioni avrei potuto affrontare un mutuo. Poi è arrivato l’anno in cui abbiamo chiuso davvero, ma io nel frattempo - sempre mettendo da parte i soldi necessari per schivare le ipoteche delle banche - avevo venduto la scatola da scarpe e comprato una casa che poteva dirsi tale, pazienza se priva di terrazzi. Ma nei vicoli non puoi avere tutto, ascensore vista terrazzi vicinato, a qualcosa devi sempre rinunciare.

Da qualche tempo non vedo l’ora di venir via da qui. Non tanto per tornare a Sestri Levante, per ora il lavoro non me lo permette e sui treni ci ho già passato tanta vita. Quanto per trovare un posto più respirabile di una zona che non è più quella che avevo sposato. O forse sono io che non ho più quella vena bohémienne della giovinezza. Fatto sta che vedo la gente andare via da qui, e chi viene sono i giovani stranieri coi valigioni che si alternano negli appartamenti ad affitto turistico breve, ce ne sono dappertutto anche nel mio palazzo e a volte per affollamento mandano fuori uso l’ascensore. In piccolo, quello che è successo irreversibilmente a Venezia: da città vera ad albergo città, autoesiliatisi in terraferma i residenti.

Dicono che questa zona rinascerà, non appena le vie di comunicazione con Milano la renderanno l’ideale affaccio sul mare di chi vive oltre Appennino. Ma campa cavallo e nel frattempo i negozi chiudono, gli abitanti diminuiscono e vengono sostituiti dai fantasmi. Nel mio vicolo ogni sera c’è una sorpresa: uno spacciatore indaffarato a smanettare sul cellulare, uno che nasconde la mercanzia nelle centraline telefoniche o nei contatori scardinati, ieri c’era uno che dormiva per terra in un sacco a pelo, stamattina c’era ancora, mi è venuto perfino il sospetto che gli fosse capitato qualcosa, poi al pomeriggio è sparito.

La prima emergenza di Genova sarebbero i vicoli, per la fatiscenza urbanistica ed edilizia e l’insicurezza sociale che aumenta col venir meno della luce naturale, ma sembra che non ne importi nulla a nessuno, malgrado tra la sede del Comune e il degrado assoluto ci siano davvero pochi passi, pochissimi metri. E poi c’è il fine settimana con i suoi rituali, con il baccagliare fino a notte fonda di chi scambia questo territorio come un luna park dove dietro le finestre non c’è gente che vorrebbe prender sonno. Tutta la settimana impazza il rumore ossessivo dei mezzi dell’igiene urbana, che devono certamente girare di notte, ma i loro barriti e grugniti (è l’una e trentacinque circa, mentre scrivo, e se ne ode un rombo) scandiscono le tenebre. E poi le urla degli ubriachi, i segni delle sbornie, il vandalismo, i calci alle saracinesche, ogni tanto le sirene delle ambulanze o delle forze dell’ordine.

Tutti gli amori finiscono. Sarà che dalla pandemia, e dalla conseguente reclusione domestica, patisco la mancanza di un terrazzo anche minimo. Sarà che quando avevo vent’anni era tutto diverso. O forse era diversa anche questa zona, che da una certa ora in poi si perde in una notte più buia della notte. Generando insicurezza e apprensione.

Lavoro ancora, per fortuna, e sempre per fortuna da quando faccio il giornalista ho sempre avuto le redazioni a portata di camminata: quindici-venti minuti il Mercantile, ora cinque-dieci Primocanale. Ma allungherei volentieri il percorso, anche usando il treno che a Genova è la vera metropolitana, per sistemarmi in una casa meno ostaggio della desolazione, magari con il mare meno lontano di questo mare soffocato del bacino antico, che è solo andirivieni di navi passeggeri che spargono un fumo nerocarbone. Mi affatica solo il pensiero del trasloco: i libri, gli abiti, i dischi, la videoteca, tutto cresciuto rispetto a quando quattordici anni fa mi ero trasferito da un portone a un altro distante ottantotto passi, me li ricordo perché dalla scatola da scarpe alla casa tutto il trasferibile era stato portato a dorso di Stefano. Stavolta non potrei perché libri, abiti, dischi, video e anche mobili sono aumentati.

Allora, tra il 2008 e il 2009, non riuscivo a lasciare la mia vecchia scatola da scarpe, quasi ormai vuota a parte la rete del letto. A volte penso che mi piacerebbe rivederla e scoprire come sia adesso. Da questa, invece, ormai non penso che ad andarmene. Se solo sapessi dove. E come.