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Sempre più biciclette sulle nostre strade, ma il modello resta quello legato alle auto. Governo, Regioni e sindaci abbiano il coraggio di prendere decisioni a favore delle nuove mobilità sostenibili
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Quando la forma diventa sostanza: ha fatto bene Matteo Salvini a voler togliere dal nome del suo Ministero il riferimento alla “mobilità sostenibile” perché a mio parere suonava un po’ come una presa in giro. Di politiche per la mobilità sostenibile in Italia se ne sono viste molto poche in questi anni. Avrei certo preferito che quel nome al ministero rimanesse, accanto a quello delle infrastrutture, e che si facesse davvero qualcosa di serio per rendere l’Italia un paese europeo, moderno, all’altezza dei tempi che ci aspettano e quindi capace di trasformare il proprio modello di trasporto quotidiano. Ma almeno così evitiamo l'ipocrisia di pensare che tracciare due righe sull'asfalto col simbolo della bici ci renda un Paese per ciclisti.

Perché la verità è che invece siamo fermi, lì, inchiodati da anni all’uso del mezzo privato per eccellenza: la macchina. Con auto sempre più grosse, sempre più veloci, sempre più inquinanti.

Basta però guardarsi attorno per capire che ormai sulle strade circola di tutto: non solo le moto e gli scooter (a Genova spesso superano di numero le auto), ma sempre di più biciclette, monopattini, trabiccoli più o meno sicuri ma che hanno una prerogativa, quella di non inquinare o almeno inquinare meno, di essere ecologici e rispettosi dell’ambiente. “Ma non del traffico” obietterà qualcuno. Vero, verissimo, ma solo perché il modello che abbiamo e continuiamo a portare avanti è lo stesso: l’automobile padrona della strada. Tutto il resto diventa così un fastidio, un ingombro, un ostacolo. E un pericolo.

A scrivere è un ciclista urbano: da sempre giro in bicicletta nei miei spostamenti quotidiani, non ho altro mezzo, per scelta. Se piove mi copro bene e prendo la bici. Se piove forte uso i mezzi pubblici. Ma in città non mi sposto mai con l’automobile per un semplice motivo: non ho mai voluto prendere la patente.

Ecco perché sono felice quando vedo che da qualche anno le nostre città si sono riempite di biciclette. Un po’ meno quando vedo come sono state fatte in fretta e furia alcune piste ciclabili. Bella l’intenzione, decisamente meno bella la loro realizzazione.
Eppure di fronte a questo aumento di persone che provano a scegliere di spostarsi in modo diverso, e l'aumento dei rider che per lavoro si muovono sulle due ruote per portarci cibo e pacchi a casa, non si può più stare a guardare. 

Si deve quindi pensare a ridisegnare le nostre città, i centri urbani, creando piste ciclabili che si possano chiamare davvero così, che siano protette come lo sono i marciapiedi, e come hanno fatto da decenni le città del Nord Europa che prime di tutte hanno creduto, nonostante il freddo ben peggiore del nostro, in un modello ecologico e sostenibile che possa conciliare l’uso dell’auto e quello di altri mezzi, la bici in primis.

Perché oggi sulle nostre strade la convivenza è sempre più difficile e pericolosa. L’anno scorso sono morti 221 ciclisti investiti da auto e camion. Solo pochi giorni fa a Milano un ragazzino di 14 anni è finito sotto un tram nel tentativo di attraversare i binari con la sua bici, mentre andava a scuola. Una manovra azzardata, certo, che gli è però costata la vita.

Oggi, le statistiche lo dicono chiaramente: in Italia si muore di più in percentuale andando in bici o a piedi, che in auto. E la nostra media è tra le più alte d’Europa. Non a caso l'European transport safety council, l'organizzazione con base a Bruxelles che si occupa di ridurre le vittime del trasporto, ha scritto nel suo ultimo report che “in Italia non c'è ancora un habitat che consenta spostamenti in sicurezza”.

La rivoluzione è però iniziata, come sempre dal basso. Dalle strade, in questo caso. Mi auguro quindi che al di là del riferimento alle “mobilità sostenibili” sparito dal nome del Ministero alle infrastrutture, Governo, Regioni e soprattutto i sindaci capiscano che oggi le nostre strade devono servire anche utente diverse rispetto al passato e abbiano il coraggio di prendere decisioni che potrebbero sembrare impopolari ma capaci poi di rivelarsi vincenti, per tutti.

Come ha fatto Bologna che ha deciso di imporre il limite dei 30 km orari in tutta la città, e come ha fatto Genova dove è stata ridisegnata secondo una logica corretta, e con la giusta protezione, la pista ciclabile di corso Italia, premiata non a caso da Legambiente.