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Oh come poca cosa quel che fu da quello che non fu divide: men che la scia della nave acqua da acqua. Il professor Andrea Chiapuzzo, uno dei monumenti della storia della Sampdoria, amava questi versi di Sbarbaro; e sicuramente gli sarebbero tornati in mente, alla fine della partita di Cremona. In poco più di un'ora e mezza, si è passati da una crocefissione d'orchestra alle due boccate di felicità di Stefano Rosso. Non è una storia disonesta, questa vittoria della signora in giallo(cerchiato) allo Zini: assomiglia piuttosto a quando arrivi al casello dopo un lungo viaggio, scopri che c'è sciopero e non si paga. Quando il migliore in campo dei tuoi, contro l'unica altra squadra che finora non aveva vinto una partita, è quello con la maglia diversa dagli altri e il numero 1 sulla schiena, è d'obbligo l'esclamazione novembrina in milanese di Delio Tessa: "L'è el dì di mort, alègher". Anche perché sabato sera si gioca a San Siro, contro l'Inter, e le prospettive di ricominciare daccapo non sono infinitesimali.

Quel che resta del giorno trascorso a Cremona, città del padre di Paolo Mantovani e del più grande numero 9 della storia doriana, non è tanto la vittoria, prima stagionale come fosse acqua dentro acqua. E' piuttosto il superamento di quel che Jorge Valdano chiama "miedo escenico", la paura della messa in scena. Gli undici personaggi in cerca d'autore schierati da Stankovic si sono visti infatti proporre dall'invisibile Capocomico i due snodi decisivi della rappresentazione, il rigore di Dessers parato da Audero e il gol di Colley, proprio sotto la curva ospiti, che il 28 giugno 1989 era occupata dai napoletani perché il resto dello stadio era blucerchiato, ad ammirare la sinfonia fantastica che disorientò perfino Maradona.

Erano tremila, i trasfertisti doriani saliti nella Bassa a cercare un po' di bellezza. Un numero inopinato, per un lunedì sera di fine ottobre, per una squadra ultima in classifica, con una proprietà scomunicata e un orizzonte alla Carotone: mondo difficile, vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto. Eppure c'erano.

Noi, della razza di chi rimane a terra, dal chiuso di uno studio televisivo, un po' abbiamo ammirato e molto invidiato quella fiumana blucerchiata campeggiante sui gradoni dello stadio. Nel film più bello attorno a uno sport che mai sia stato girato, "Palombella rossa" di Moretti, alla fine della Partita il protagonista che ha sbagliato il rigore decisivo, addentando un pezzo di pizza, ammette: "Io m’aspettavo di più… m’aspettavo di più dalla vita, di più, e meglio. Anche se questa pizza qui, lo spogliatoio. Ecco il motivo per cui per venticinque anni ho giocato a pallanuoto, che è uno sport che poi non mi piace nemmeno tanto, però, queste trasferte, i pullman, gli autogrill, il pubblico che ti insulta, che ti sputa addosso, i calci degli avversari, beh, tutto questo è bellissimo”.

Quando ha segnato Colley, la telecamera ha inquadrato in primo piano Marco Mazzino della Vecchia Riviera, un mio carissimo amico dalla gioventù, oggi 53 anni, contento come un bambino. E la mente si è fatalmente abbandonata al ritroso dell'evocazione. Per molti di noi, che prima di finirci dentro per lavoro avevano vissuto il calcio prima come modo di vedere il padre alla domenica e poi quale colonna sonora della giovinezza, non contavano tanto le partite, anche se era stato un dono insperato attraversare i vent'anni accanto alla Sampdoria più bella di sempre; il bello erano le albe dal finestrino, gli autogrill e i pullman appunto di Apicella-Moretti, i treni notturni e perfino le navi. Si era andati davvero dappertutto, in Italia come in Europa, a Trondheim come a Varsavia, a Budapest come a Goteborg in ferrovia, per il gusto di andare a sventolare una bandiera, a piazzare su una griglia lo striscione con Corto Maltese. Poi la vita ha deciso lei, ma la bellezza del viaggio per il viaggio è rimasta la più lancinante delle nostalgie.

E' difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già. Noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto. Ma davanti ai tremila doriani accorsi a Cremona prende la nostalgia dell'inaccaduto: quelli, i loro fratelli maggiori e genitori, vengono da decenni ormai di deserto senza rose. Da quasi trent'anni manca un padre; ed è questo orfanaggio che duole. Di quel tempo felice splendono nella memoria non tanto le vittorie, quanto il senso di comunità morale. Se ci incontriamo sugli argini e ci contiamo, e manchi sempre tu, vien da dirci: io e te, che facemmo invidia al mondo, avremmo vinto mai contro un miliardo di persone.

Chiunque arrivi, a farsi carico di tutto questo, a dare aria a queste stanze molto prima che sia Natale, tenga conto di tutto questo, di quanto sia enorme questo amore da accudire, da rispettare, da onorare come ormai da troppo tempo non accade. C'è un popolo che basta a se stesso, quel "più grande patrimonio della Sampdoria" definito proprio da Mantovani, ma che aspetta da troppo tempo qualcuno che gli indichi una strada.