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“Ed ecco a voi il Festival della canzone italiana da Venezia”. Oppure da Roma, da Milano, da Firenze. O da chissà quale altra località. Per carità, la Rai è padronissima di farlo. Ma non sarà mai il Festival di Sanremo, che ha appena spento 74 candeline. A quel punto anche Palazzo Bellevue potrebbe gettarsi nelle braccia di Mediaset, ad esempio. E vorrei proprio vedere gli ascolti televisivi e l’attenzione nazionale chi premierebbero…

Nei fatti sono scenari quasi impossibili, perché il marchio del Festival è pure protetto. Nondimeno, ciclicamente torna questa storia che l’Ariston è piccolo e che Sanremo è insufficiente ad ospitare una kermesse ormai gigante come quella canora. Che tutto sia migliorabile è sicuramente vero, però chi ipotizza la possibilità che il Festival cambi città semplicemente non fa i conti con la realtà.

“Perché Sanremo è Sanremo” recita un vecchio spot. Guardate che le pubblicità non nascono a caso. E ancor meno certe affermazioni utilizzate per promuovere un evento. Dunque il Festival è Sanremo e Sanremo è il Festival. Poi ci sono il Casinò ed altri appuntamenti, ma i cinque giorni destinati alle canzoni e alle polemiche, anche politiche, sono un unicum. Irriproducibili altrove.

Invece… Ricordo che la stessa cosa, invero con meno ciclicità, avviene con il Salone Nautico di Genova. C’è chi lo ha immaginato davvero a Venezia, oppure a Viareggio. Qualcun altro se l’è sognato itinerante: un anno qui, un anno là. Ma era il periodo in cui non sapevi se la crisi investiva il Nautico oppure se il Nautico era lo specchio delle difficoltà del settore. Entrambe le cose, probabilmente.

Ma appena la situazione è un po’ migliorata nessuno ha più parlato del Salone Nautico trasferito altrove. Ucina, la Confindustria del mare che organizza la manifestazione, ha fatto il resto: crescita continua in termini di espositori, spazi dedicati, attenzione della città, appuntamenti collaterali  e via elencando.

Ora, io non so perché periodicamente un’intera regione venga indicata prossima alla depredazione. Genova è stata appena presentata come capitale europea dello sport 2024 eppure c’è chi ne discute le capacità attrattive (un discorso a parte meriterebbero le parole in libertà della ministra del Turismo Daniela Santanchè sui pochi alberghi del capoluogo, ma non è questa la sede). Il ragionamento vale pari pari per Sanremo e per tutte le altre località liguri che sanno imporsi all’attenzione internazionale.

Non conosco il motivo di tale e tanta avversione. Oppure lo conosco benissimo: a molti farebbero comodo il Festival della canzone (di Sanremo) e il Salone Nautico (di Genova). Ma questi eventi, e altri ancora, la Liguria li ha e se li tiene ben stretti. Con buona pace dei gufi, oltretutto disinformati.  

E’ vero. Ha ragione quel lettore del “Decimonono” che, alcuni giorni fa, scriveva che il Portello è scomparso. Ahimé è proprio così. Piazza Portello, così la chiamavamo, laggiù da dove salpa l’ascensore verso Castelletto così amata da Caproni e la funicolare che sale alla “Vaccheria” di Sant’Anna, non c’è più. E’ ormai soltanto un brutto e anonimo crocevia, tra due gallerie, con ingressi per il silos sotterraneo, code che s’apprestano a attraversarlo non più sotto, ma sopra e il “vespasiano di cemento” più o meno “armato” unico piccolo monumento alla contemporaneità. Cento metri più avanti, dopo la galleria, in piazza Bandiera almeno governa ancora la meraviglia della statua di Enea, unica in Italia, figlio premuroso e padre solerte, accerchiato dalle automobili in sosta. Ma Enea, si sa, è uno che resiste a tutto.

Il Portello non ha Enea, non lo ha mai avuto, ma era una piazza più o meno e non uno svincolo anonimo.
Rileggo così quell’articolo del grande pittore, illustratore caricaturista Renato Cenni, quando partecipò, nel febbraio di cinquant’anni fa all’inaugurazione del “Babboleo” proprio in piazza Portello.
“Babboleo si chiama il complesso gastronomico inaugurato in piazza Portello nel palazzo dove era l’antica pasticceria Preti”.

Lo ricordo bene anche io. Erano sale ampie, su tre piani, grandi vetrate. Al piano terra la pasticceria e la tavola calda. Comodissima per tutti quelli che lavoravano intorno alla piazza, anche per chi era in Comune a Palazzo Tursi. Non si chiamava ancora pausa-pranzo, non esistevano né i “taglieri” né lo spritz. Ma nel locale definito entusiasticamente “da 2000 e una notte!” al primo piano si pranzava al ristorante, con abili chef e piatti raffinati.

Tutto si svolgeva calpestando moquettes chilometriche, in camere rifasciate di panni morbidi, rosa e blu, illuminate da luci molto forti che Cenni, spiritosamente, definiva “sadiche”, tali da far pensare “che l’arredatore si fosse ispirato agli interrogatori di terzo grado rivelati dai film polizieschi”. Nei sotterranei l’american bar verde, dove si poteva ascoltare “musica stereofonica”. Wow!

Cenni racconta l’inaugurazione con cena riservatissima dove “dai quartieri alti sono calate le locuste-bene e in quattro e quattr’otto hanno spazzolato tutto”, dalla fantasia di antipasti all’arrosto glassato, ai crostini Toulouse Lautrec”. Insomma un locale chic in una piazza elegante nel cuore della città, quel Portello che aveva segnato le mura del XII secolo e era la cerniera tra Castelletto e il centro.
Davanti al tunnel piastrellato che portava alle cabine dell’ascensore c’era l’ edicola dei giornali. Intorno i palazzi, quello dove un tempo funzionava il consolato americano, la rampa che porta a salita delle Battistine lungo la villetta Di Negro dove abitava Nietzsche, la curiosa torretta che sembra un minareto, l’accesso a via Garibaldi e, oggi, ai Rolli.

I turisti l’attraversano per salire alla Spianata e un attento blogger fa notare “la bruttezza della ringhiera della rampa di accesso al garage”, ma soprattutto “sia la pavimentazione fatta di basoli in arenaria ottocenteschi, quelli tolti all’inizio dei lavori, poi da orribili pietre rettangolari “Made in China” ed infine dei basoli lisci, del tutto diversi dai primi.”. Insomma in pochi metri tre tipi diversi di pavimentazione. Non è questo che avvilisce, ma la perdita di un sentimento della piazza.

E’ pronta l’ex piazza Portello, oggi Svincolo Portello, a diventare il limite di una zona pedonale, quella che, in molti si augurano, con coraggio riserverà a chi cammina, acquista, passeggia da genovese o da turista, Fontane Marose e via Roma senza auto, moto, scooter e con l’accesso del popolo dei furgoni regolamentato? Coraggio, caro sindaco…..dopo Cerofolini e Pericu oggi tocca a lei la decisione.

Dicono che sia un duro. Dicono anche che a volte urli un po’ troppo e che si lasci andare. Ma Marco Bucci è anche un uomo capace di commuoversi nel vedere i risultati ottenuti, a volte, anche con i suoi modi bruschi. E allora eccolo felice e orgoglioso a Roma al cospetto di due ministri e dei vertici dello sport nazionale. 

Non si diventa Capitale europea dello Sport a caso dietro c’è un lavoro di anni da parte dell’amministrazione comunale capace di rinnovare impianti e di avere una visione. Lo osserviamo attentamente mentre ascolta le parole del presidente del Coni Malagò che si dice felice anche per la rinascita del Palasport. Bucci annuisce, accenna un sorriso e nasconde alla grande la stanchezza per un’alzataccia nel cuore della notte per essere a Roma in mattinata. Nessun albergo, nessuna cena regale e neppure un volo aereo. Prima delle  5 era già in macchina in direzione della Capitale. Perché lui è fatto così.

Genova è diventata capitale dello sport ma ieri a Roma c’era un po’ come la sensazione che si sia un pò ripresa quella nomea di Superba che si porta dietro da tanti anni. C’erano due ministri, c’erano il Coni e i vertici delle Federazioni insieme a tutta la stampa nazionale. Tutti a ripetere quanto sia bella e unica la nostra città ma anche a ribadire quanto sia cresciuta e cresca ancora. Certo molte sono ancora le cose da migliorare, tanti i difetti da limare e certe scelte dell'amministrazione in città stanno facendo discutere come è normale che sia. Ma meglio avere da discutere che subire il nulla.

“Dopo Milano ora c’è Genova tra le città che crescono di più - conferma con un po’ di orgoglio il vice ministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi - i tantissimi cantieri che ci sono dimostrano che si sta facendo molto e che presto avremo una Genova ancora più bella moderna e funzionale. Chi viene da noi e vede i lavori in corso capisce che si trova in una città che guarda al futuro”.

Già quel futuro che ha ben in testa Marco Bucci che in una delle sue prime interviste da candidato sindaco disse: “Sono famoso per essere duro, ma anche per essere tenerissimo. E tutte le volte che vedo un film che va a finire bene mi vengono le lacrime agli occhi”.

Ed è ecco spiegato il motivo per cui ieri a Roma era visibilmente emozionato: il film di Genova capitale dello sport è finito bene. “Ma abbiamo ancora tante cose da fare” ribadisce. Magari urlando, ma le farà. E poi si emozionerà. Perché lui è fatto così.

Evviva la fiction che ha celebrato la fantastica storia di Goffredo Mameli e dell’Inno da lui scritto prima di morire in battaglia. La produzione televisiva in due puntate ha riportato Genova e la sua storia così intensa alla ribalta in un modo che la fa risaltare diversamente dalle comunque utilissime serie tv degli ultimi anni. L’emozione di scoprire le origini del “Canto degli italiani”, scritto da quel ragazzo genovese, destinato a morire a 22 anni, è forte anche perché quelle parole e quella musica, scritte nel 1847, negli ultimi anni sono diventate molto più popolari anche grazie alla visibilità dei campioni dello sport che cantano quando la bandiera italiana viene issata dopo una vittoria o prima delle partite delle nazionali, con un coinvolgimento crescente.

Insomma Genova s’è desta ancor di più, grazie alla storia dell’inno e delle sue origini eroiche. Le sequenze che raccontano la prima volta che venne cantato da 30 mila genovesi in marcia dall’ Acquasola al Santuario di Oregina, un corteo più politico che religioso, testimoniano e sottolineano il ruolo della nostra storia nella costruzione dell’Unità.
Quindi grazie per la fiction, pur con tutti i suoi difetti ed errori, che fa scoprire sopratutto alle nuove generazioni da dove veniamo, quanto sangue, quanto coraggio è costato fare l’Italia e che da alla Superba il ruolo giusto tra Mazzini, Garibaldi e il ragazzo Mameli.

Ma non si poteva sottolineare nell’esattezza della ricostruzione un po’ meglio la genovesità dei protagonisti nella loro interpretazione? Riccardo De Rinaldi Santarelli, l’attor giovane che fa Mameli, non sfiora mai l’accento genovese e non parliamo di Nino Bixio, che parla con chiaro accento calabrese, a noi molto caro, ma non corretto per il personaggio.
Mentre la cocina piemontese risalta con forza quando la scena si sposta sui protagonisti interessati dalla vicenda, a Torino o fra le truppe savoiarde, Genova non si sente “suonare” neppure quando i ragazzi ricordano Balilla e lanciano il suo celebre grido, che più genovese di così non si potrebbe. Che l’inse...

Saranno dettagli, ma contano. E lasciamo stare il resto della fiction, le imprecisioni non solo storiche, magari dettate dalle esigenze tv, che deformano per esempio la storia d’amore tra Goffredo e la marchesina Geronima Ferretti. Un po’ tutte le ricostruzioni ambientali di interni ed esterni appaiono approssimate e quella Genova è raramente riconoscibile. Ma pazienza.

L’importante è che una figura quasi sparita o sottovalutata come quella di Mameli, con il suo Inno, sia stata rivalutata e fatta conoscere al grande pubblico insieme a quella Genova cruciale nella costruzione del Paese, crocevia di politica, ribellioni, moti, guerra e perfino canti identitari. Poi verrà Garibaldi, che parlava in genovese stretto e speriamo che lo ricostruiscano anche con questo connotato, oltre che nel ruolo di grande comandante d’armi.

Intanto l’Inno, che ci aveva messo 70 anni a passare da “provvisorio”, come lo avevano definito i padri costituenti, a definitivo con una legge del 2017, nella quale ha messo lo zampino anche un ligure, come l’allora senatore Luigi Grillo, è stato raccontato nella sua genesi. E ora quando lo vedremo cantato sulle labbra dei campioni sportivi, bene o male, con passione o con sufficienza, con quelle frasi anche un po’ ermetiche “stringiamoci a coorte”, sapremo e sapranno tutti da dove viene. Belin da Zena.

Gli agricoltori che l’altra sera sono intervenuti al Programma Politico di Primocanale sono gli ospiti più educati che io abbia mai avuto in una diretta televisiva: pacati, sorridenti, fieri. Hanno espresso le proprie rivendicazioni, loro che nei campi usano il forcone, con la forza gentile di chi sa di essere nel giusto.

E quella tavola imbandita nella stalla, in una rievocazione quasi biblica che ci ha catapultati in un mondo semplice e concreto, era il giusto premio dopo una giornata di duro lavoro: un gruppo di donne e uomini per bene che, con la coscienza tranquilla e il cuore leggero, si è riunito per una piccola festa prima di rincasare. Storie di persone e di campagne che vediamo di rado, noi che viviamo in un mondo che pensa che le mele crescano sugli scaffali del supermarket, vicine all’albero della Coca cola.

Le loro storie mi hanno fatto molto riflettere. Perché al netto di ogni richiesta sindacale, dai tagli all’Irpef ai prezzi equi, ciò che gli agricoltori ci stanno ricordando è più semplice e profondo: “Il mondo non si può reggere sulle spalle degli ultimi”. Ed è un rischio grave che i nostri comportamenti, ne ho già scritto altrove perché è un aspetto che mi tocca, rischiano involontariamente di acuire.

La nostra società, tutti noi in definitiva, pretende di pagare poco ciò che ritiene essenziale: pane, frutta, verdura, persino l’acqua, che pure scarseggia in varie parti del mondo e in qualche zona anche da noi, devono costare poco. Questo crea una mentalità secondo cui una cosa che costa poco, vale poco.

E così paghiamo i nostri agricoltori una miseria, perché “sa, signor contadino, noi non possiamo rincarare le zucchine di qualche centesimo per far stare un po’ meglio anche lei”. Così come sottopaghiamo corrieri, operai e persino medici, ingegneri e tecnici specializzati per tenere compressi i prezzi di un mercato che certe cose, che pure rappresentano la base della nostra civiltà, le vuole pagare poco.

Questo crea squilibri enormi perché il peso di questa filiera è tutto sulla base: i piccoli operatori con scarso potere contrattuale sono in balia di un mercato che li schiaccia, o bere o annegare. E i Governi, specie a livello sovranazionale dove pare sia tutto regolato dalla polizia dei buoni sentimenti, si occupano di clima, di futuro, di grandi obiettivi mente i loro concittadini più deboli non arrivano alla seconda settimana, altro che la quarta.

Serve un riequilibrio e serve con urgenza: è necessario in campagna come in città. Sono nato e cresciuto liberale, individualista e competitivo ma ne sta venendo fuori un mondo così ingiusto che rischio di morire comunista. Fermatemi finché siete in tempo.