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Trent’anni fa è finita l’Unione Sovietica, nel 2022 sarà invece un secolo dalla marcia su Roma. Eppure il fascismo sembra sempre qui, si direbbe non se ne sia mai andato. La bandiera rossa invece è diventata presto uno scampato pericolo o una nostalgia apocrifa, qui dove per tutto il dopoguerra si era guardato alla Russia come a una speranza oppure un alibi.

La notte di Natale del 1991, la bandiera rossa venne ammainata dalla torre del Cremlino, lasciando il posto al tricolore di Pietro il Grande da cui era volata via l’aquila zarista. Era il Natale cattolico e non quello ortodosso, forse un involontario omaggio di Mikhail Sergeevic al polacco che dal Vaticano aveva riconsacrato la Terza Roma.

Da noi quel tramonto venne vissuto come un lutto o una liberazione, entrambi impropri. L’Italia quasi per metà era stata una grande provincia sovietica e in parte, elaborato il traumatico orfanaggio da una reinvenzione a una rielaborazione spesso oltre le soglie del folklore, lo sarebbe rimasta. Altri credettero che la guerra fosse finita e sbagliavano.

Il consolato di Genova, allora sovietico oggi russo, sta a Nervi. Una piccola fortezza squadrata dalle alte mura di cinta nel vicolo stretto di Ghirardelli Pescetto. Il console di fine impero era un tartaro dagli occhi sottili, che aveva ricevuto i giornalisti nel giorno di giugno in cui la sede diplomatica era diventata seggio elettorale. Si votava nel seminterrato. Due mesi dopo ci fu il tentato colpo di Stato e il console pare si fosse schierato con i militari. Venne richiamato presto.

Genova era molto sovietica anche lei e in qualcosa lo è ancora, per quanto il cacocromico palazzo ai piedi di San Leonardo, storica sede del partito, sia ormai diventato un’altra cosa dal vertice del triangolo che comprendeva via Caffaro e piazza Posta Vecchia. La casa natale di Palmiro Togliatti - luciferino genio dalle mille vite, da cittadino sovietico ombra dell’ombroso “piccolo padre” a primo guardasigilli repubblicano - stava a ridosso dell’Albergo dei Poveri e non c’è più. Quell’implosione lontana, come cinque anni prima i radionuclidi della centrale Vladimir Il’ic Lenin di Chernobyl, sarebbe arrivata anche qui. Il vuoto lasciato dalla più grande utopia mal realizzata della storia, mai sostituito, avrebbe prodotto uno sciame sismico tuttora vivo.

La Russia ridiventò da sola il Paese più grande del mondo, lasciando orfano di se stessa gran parte del resto. Sommersi e salvati ripresero voce, a dire quel che non si era mai potuto dire: la scienza degli addii di Osip Mandel’stam, la smarrita Madonna Sistina di Vasilij Grossman, la condanna per parassitismo sociale di Iosif Brodskij. Tutto immenso come la Piazza Rossa, dove lo sguardo si smarrisce, come i palazzi sull’acqua della Neva vicino al museo della memoria del mondo, come la gigantesca ragazza con la spada sulla collina di Mamayeva Kurgan. Quando Gorbaciov venne a Genova, quattro anni dopo, era già un reduce, un melanconico sopravvissuto a se stesso che dissimulava il rimpianto nella cordialità. Nel 2001, dalla spaventevole berlina presidenziale russa arrivata in piazza Matteotti da San Lorenzo, sarebbe sceso Putin. Era già finito un mondo ma un altro non sapeva cominciare. Quella patria straniera manca a chi non l’ha abitata, forse manca anche a chi la temeva perché almeno sapeva che cosa fosse.

L’URSS era morta molto prima di morire. Avvenne il 20 aprile 1986, nella Sala Grande del Conservatorio “Tchaikowskij”. Invitato proprio da Gorbaciov, dopo 61 anni di autoesilio Vladimir Horowitz tornava a Mosca. Si sedette al pianoforte, guardò il silenzio della platea, quindi attaccò la Sonata K33 in si minore di Domenico Scarlatti, un compositore napoletano del Novecento nato per caso in tempo barocco, finito a vivere e morire a Madrid. Era, in quelle note intrise di dolente melanconia, l’Occidente ormai stanco, che tornava per una tardiva rivincita nella terra dove Voland aveva imperversato in forma di gatto.

 

 

Insieme alla spagnola San Sebastian, una delle più belle città dei Paesi Baschi (nella lingua d'origine il nome è Donostia), Genova ha vinto il premio "Capitale europea del Natale 2022" patrocinato dal Parlamento europeo. C'è stato un comunicato del Comune sul valore, anche turistico, del riconoscimento, ma complessivamente la notizia è passata un po' sotto tono.

I media sono impegnati a registrare le polemiche, spesso artificiose, sul Covid e la politica fa altrettanto, al più cimentandosi con i primi fuochi della battaglia per il Quirinale. Così Genova non riceve la giusta attenzione per un premio il cui valore, invece, è molto più profondo.

Intanto segna la capacità della città di confezionare delle festività che indiscutibilmente sanno parlare al cuore delle persone. Gli addobbi contano, certo. Contano anche gli eventi, dai mercatini in giù o in su fate voi. Ma questa storia del Natale genovese un po' più Natale degli altri non è prerogativa di quest'anno, è qualcosa che va avanti da tempo.

Il luogo comune racconta di genovesi che sono tirati nei soldi e praticamente incapaci di relazioni sociali, umane direi, degne di queste nome. Falso che più falso non si può. Non getteranno il denaro dalla finestra, i genovesi, ma quanto a cuore non sono secondi a nessuno. Anzi, la bontà d'animo di queste persone e il desiderio di rendersi genuinamente utili appena ce n'è la necessità fanno aggio, sempre, su tutto il resto. Le alluvioni e il crollo del Ponte Morandi ne sono state le dimostrazioni plastiche più significative, nella loro tragicità. E poi c'è la pandemia, che Genova ha affrontato facendo sacrifici di ogni genere, però sempre con uno sguardo rivolto in avanti e oggi con la pervicacia, a ragion veduta nonostante le cifre poco confortanti dei contagi, di rincorrere la perduta normalità.

Già, la normalità. Non è un caso se a Genova esiste un giorno per giorno ancora più significativo. Perché i genovesi non devono aspettare il Natale per esprimere la solidarietà di cui sono capaci. In più lo fanno sottovoce, senza il clamore di altre zone, anche d'Italia. Sarà il loro tipico understatement a rendere questa capacità di aiutare gli altri quasi invisibile. Invisibile, però c'è. E concreta.

I giurati ne parlano nella motivazione, sottolineando "l'impegno di perseguire i valori europei del Natale, un momento di speciale significato in cui si rivelano i valori profondi dell'integrazione, della tolleranza, della convivenza e della pece che sono al centro e all'origine del progetto europeo". Il Natale, dunque, è l'occasione più enfatica, quella che vedono nel resto d'Europa e che giustamente viene premiata. Ma fatelo dire a chi ha la presunzione di conoscerli, i genovesi. E da "naturalizzato" ha pure l'orgoglio un pochino di appartenere loro: è davvero gente fuori dal consueto. Gente che sa fare di tutti i giorni il Natale.

Il re è nudo, ma nessuno vuole gridarlo. La pandemia sta per compiere due anni, anzi forse li ha già compiuti e un anno dopo l’urlo liberatorio per la conquista del vaccino  nessuno vuole ammettere che questa terribile disgrazia planetaria, che ha cambiato le nostre vite, non è ancora alla fine. Anzi. D’accordo: ci sono molti meno morti di un anno fa, almeno in casa nostra. Il virus cerca di bucare i vaccini e per fortuna non ci riesce, ma dilaga con le varianti come la Omicron, che saranno pure meno gravi, destinate a diventare un endemico raffreddore, ma quante altre Omicron arriveranno dagli angoli sperduti e non vaccinati del mondo?

Lentamente ma non troppo i reparti Covid si riempiono anche da noi, che eravamo i migliori, e le terapie intensive salgono. Il ritorno ai colori ci aspetta dietro l’angolo. Il vaccino serve, ma non basta. Perché nessuno lo urla? Da due anni viviamo ogni giorno in un mondo pandemico globale. Le terapie intensive piene in Germania, il nostro modello di efficienza e preparazione fino a un anno fa, il disastro semisegreto dei paesi dell’Est, con i morti a caterve nascosti a Mosca, cosa ci dicono?

Che il virus galoppa, non solo dove si è vaccinato poco per colpa di regimi autoritari o ignoranti, ma anche nei Paesi dove la percentuale di vaccinazione è alta, come Portogallo e Spagna: si muore anche lì molto meno, ma il contagio continua, si rianima, sale. Mentre la nostra attenzione torna spasmodica a quel bollettino del pomeriggio, che ha le curve tutte in salita, mentre precipitiamo nella stagione fredda,  dobbiamo chiederci se la nostra ricetta -vaccini più restrizioni- è sufficiente o dobbiamo fare altro. E che altro?

Oramai la nostra vita è cambiata e almeno potremmo riconoscere che siamo destinati alla vaccinazione perenne e a restrizioni permanenti e che siamo rassegnati a questo. Oltre che, alla mascherina sempre o quasi, agli incontri Zoom, alla Dad a singhiozzo, agli isolamenti improvvisi, ai tamponi di corsa fatti nella farmacia sotto casa alla prima febbre sospetta, ai messaggi delle mamme da una classe all’altra per capire, per sapere, allo smart working che riparte e non si fermerà mai, al Veglione di Capodanno sospeso per il secondo anno, alle feste ristrette, a incontrarci per strada e chiederci come salutarci, magari non riconoscendoci più perché la mascherina cambia e gli anni passano….

Viviamo in un altro modo. C’è un “prima” e un “dopo” che resteranno nella storia. E poi c’è questa spaccatura totale con una parte della nostra società, oseremmo dire della nostra civiltà, che sono i negazionisti i no vax. Sono tra di noi, nelle nostre case, nelle nostre famiglie, tra i nostri amici, tra i conoscenti. Una frattura simile non era mai avvenuta ed anche se sono una minoranza questa “differenza”, che non si declina come una opinione, ma può essere tra la vita e la morte, ci segnerà a lungo. C’è una controcultura di questa Grande Crisi, misurata bene, per esempio, dal Censis. I numeri ci dicono che per tre milioni di italiani il Covid non esiste e che per sei milioni il vaccino è inutile. Si potrebbe aggiungere che per il 5,8 dei cittadini la terra è piatta e il 10 per cento è convinto che l’uomo non è mai arrivato sulla Luna.

Tutto costruito, tutto finto. Come, appunto, il Covid. Siamo nel campo della irrazionalità, del controsapere stregonesco e sciamanico, di un senso occulto della realtà . E’ come se per costoro la realtà avesse un doppio fondo e li si nasconde la verità, celata da un potere violento, tecnologico, scientifico, universale. Non siamo in un film di fantascienza. Basta andare a finire in un corteo del sabato pomeriggio nel centro di Genova, sotto i gradini del Ducale ed eccola lì questa nuova condizione che la pandemia ci ha portato. Forse urlare non basta, per uscire dall’incubo. 

GENOVA - I numeri cominciano a fare paura. Più ricoveri in tutta la Liguria, più poveretti nelle terapie intensive. Ci consola solo confrontarli, questi dati giornalieri, con quelli, catastrofici, di un anno fa. Ma allora non c’erano gli straordinari vaccini. Ricordiamolo bene: i vaccini hanno fatto la differenza e la situazione, con altre scoperte scientifiche, nuovi vaccini da una parte, possibilità di altri richiami, e dall’altra nuove cure con i monoclonali, ci aiuteranno nonostante tutto e tutti a andare avanti. Bene.

La preoccupazione sempre più crescente viene dalle “altre malattie”. Intendo quelle serie. Tumori, cardiopatie, malattie pediatriche, eccetera. Intendo anche quelle che, magari due anni fa, consideravamo problemi di routine, noie dell’avanzare dell’età, da mettere in conto. Intanto si sarebbero risolte con un breve ricovero.
Il segnale drammatico e davvero preoccupante viene da queste.

Un’ amica mi racconta che, dopo un intervento delicato di alcuni anni fa, deve ogni anno e mezzo, fare una risonanza magnetica di controllo. L’anno e mezzo è passato e allora la signora chiama il Cup per tentare una prenotazione dell’esame. Al telefono un cortesissimo interlocutore le dà una risposta, non nascondendo un certo imbarazzo: “La prima possibilità per questa risonanza è a maggio….”. Beh, pensa la signora, a maggio 2022 sono sei mesi…
Poi il telefonista conclude la sua risposta: “A maggio….del 2023”.

Un altro amico mi riferisce di un parente che, tra molti dolori, attende un intervento di ortopedia abbastanza banale da oltre otto mesi. Ma se non lo fa subito i dolori aumentano e diventano insopportabili anche per la persona più paziente del mondo.

Ecco, questi sono solo due esempi che ho voluto ricordare, ma ne potrei elencare un’altra decina. E sicuramente i lettori potrebbero contribuire a aumentare queste testimonianze.

Se penso, come sento raccontare e non stento a crederci, che tutto questo dipende dall’intasamento degli ospedali soffocati dai ricoveri per il Covid, in stragrande maggioranza di quei liguri e genovesi che hanno rifiutato la vaccinazione (chi per paura, chi perché terrapiattista o perché pensa che col vaccino gli venga iniettata una molecola che lo trasformerà fra una decina di anni in un polpo o perché è convinto che sia più che sufficiente un clistere di candeggina per cancellare il coronavirus), beh, allora il ritardo eterno di una risonanza o di una Tac di controllo o di prevenzione, mi trasforma.

Ricordo la prima ondata con quell’eccezionale manifestazione di bontà che fuoriusciva dalle case, spopolava di zucchero caramellato nelle dirette tv, esplodeva sui terrazzi al suono di Fratelli d’Italia. Mi sentivo anche io come la maggioranza degli italiani, buonissimo, possibile candidato al premio Maria Goretti. Ora no, sono cambiato. In peggio. Molto peggio. Me ne vergogno profondamente, ma anche mi giustifico. E penso di non essere solo.

Da una finestra di via Carrozzino, traversa di Borgo Incrociati, pende dal marzo dello scorso anno un drappo sbrindellato, con la scritta: "Andrà tutto a b***sce". Qualche mese fa, l'ideatore del messaggio ha aggiunto la postilla "Come avevo previsto". Ma la voglia di riderci sopra ormai è svanita.

Si rivive, ora che si riparla di mascherine obbligatorie all'aperto in tutta Genova e non più solo nel centro, lo stesso smarrimento dello scorso autunno, quando dopo la fatua illusione dell'estate le rianimazioni avevano ripreso a saturarsi di contagiati gravi. Avevamo guadato la festante fiumana di folla in viale Italia la notte dello Spezia in A, usciti incolumi avevamo creduto fosse finita. E invece.
Ci si avviava a un altro inverno del nostro scontento, al primo capodanno di guerra dopo quelli della guerra vera, lo stesso copione che sembra adesso ricalcare un cupo giorno della marmotta: la primavera dei vaccini finalmente disponibili, un altro bagno di folla a De Ferrari - tra adolescenti rivendicativamente non vaccinati - per il trionfo di Wembley. Per forza ci si chiede adesso se e quando finirà. E' la terza brutta stagione che affrontiamo, tutti, nella costrizione dell'inquietudine. Era partito, questo incubo, con le bare di Bergamo partite dal lugubre frontone della necropoli monumentale, con i monumenti di tutto il mondo - Muro del Pianto, Niagara Falls, Tour Eiffel - illuminati di tricolore.

Siamo tutti più poveri e soli, accolita di rancorosi, e il conto economico vero di un tempo in cui - un po' per scelta di priorità, un po' per la solita furberia dei profittatori - non ci si è più preoccupati del debito pubblico deve ancora arrivare. Fin dalla prima chiusura generale, oltre ai virologi i medici più allarmati erano gli psichiatri: vedevano in arrivo nuvole basse, l'onda lunga di una paura mai provata per una guerra contro un nemico immateriale. Infatti è andato tutto male o quasi: i medici e i governanti si disperano per la tenacia con cui quasi un cittadino su cinque si sottrae, con le motivazioni più svariate, alla somministrazione di un vaccino che pure, al suo arrivo, era stato reputato un segno classista di privilegio, con i "ricchi" che saltavano la fila per andare a farsi vaccinare a Dubai. Di contro, un'armata di perplessi ha fatto del rifiuto verso il siero una bandiera ideologica, filosofica, morale, per una saldatura innaturale tra anarcoribellismo, scontento sociale ed espressione della rabbia degli esclusi.

Nessuno ha voluto cogliere il nesso tra i borbottii che promanano dal basso della società, talvolta esplodendo con la regia dei soliti noti sospetti di doppiogiochismo, e il vero dato delle ultime elezioni locali, interpretate come la grande rivincita del PD e degli antisovranisti, quando si è trattato in realtà di qualcosa di simile alla partita di calcio del 1973 tra Cile e URSS, inscenata per finta allo stadio di Santiago, dove i sovietici non si erano presentati per protesta contro il golpe Pinochet e ai cileni era bastato battere il calcio d'inizio e portare il pallone in porta per vincere, con l'arbitro a dichiarare fine partita per assenza di chi avrebbe dovuto riprendere il gioco a centrocampo. A Roma come a Torino, a Milano come a Napoli anche i sindaci vincitori partono da sconfitti, perché non hanno portato al voto almeno la metà degli elettori, e quasi sempre la diserzione coincide con quelle "periferie" da cui "ripartire", con quei "territori da ascoltare", quando alle politiche il voto di opinione torna a prevalere su quello di valutazione concreta. "Periferie" e "territori" da cui sorge gran parte della massa che alimenta i dissidi e le paure e i dubbi che alimentano questa terza guerra civile tra italiani, meno cruenta di quella divampata dopo l'armistizio di Cassibile, più riconoscibile di quella degli anni Settanta tra Piazza Fontana e la dualità Ustica-Bologna quando chi stesse con chi non siamo ancora riusciti a capirlo neppure oggi.

Allora erano tempi di maschere e pugnali, ora solo di mascherine e siringhe non senza il grottesco delle braccia finte che fanno tanto Mastroianni nei "Soliti ignoti", segni che imperversano in una riformulazione plumbea di un carnevale senza scherzi, dove ogni opinione vale e mai come stavolta l'idea di "conclusione" e quella di "obiettivo" si riassumono semanticamente nella parola "fine".