Da una finestra di via Carrozzino, traversa di Borgo Incrociati, pende dal marzo dello scorso anno un drappo sbrindellato, con la scritta: "Andrà tutto a b***sce". Qualche mese fa, l'ideatore del messaggio ha aggiunto la postilla "Come avevo previsto". Ma la voglia di riderci sopra ormai è svanita.
Si rivive, ora che si riparla di mascherine obbligatorie all'aperto in tutta Genova e non più solo nel centro, lo stesso smarrimento dello scorso autunno, quando dopo la fatua illusione dell'estate le rianimazioni avevano ripreso a saturarsi di contagiati gravi. Avevamo guadato la festante fiumana di folla in viale Italia la notte dello Spezia in A, usciti incolumi avevamo creduto fosse finita. E invece.
Ci si avviava a un altro inverno del nostro scontento, al primo capodanno di guerra dopo quelli della guerra vera, lo stesso copione che sembra adesso ricalcare un cupo giorno della marmotta: la primavera dei vaccini finalmente disponibili, un altro bagno di folla a De Ferrari - tra adolescenti rivendicativamente non vaccinati - per il trionfo di Wembley. Per forza ci si chiede adesso se e quando finirà. E' la terza brutta stagione che affrontiamo, tutti, nella costrizione dell'inquietudine. Era partito, questo incubo, con le bare di Bergamo partite dal lugubre frontone della necropoli monumentale, con i monumenti di tutto il mondo - Muro del Pianto, Niagara Falls, Tour Eiffel - illuminati di tricolore.
Siamo tutti più poveri e soli, accolita di rancorosi, e il conto economico vero di un tempo in cui - un po' per scelta di priorità, un po' per la solita furberia dei profittatori - non ci si è più preoccupati del debito pubblico deve ancora arrivare. Fin dalla prima chiusura generale, oltre ai virologi i medici più allarmati erano gli psichiatri: vedevano in arrivo nuvole basse, l'onda lunga di una paura mai provata per una guerra contro un nemico immateriale. Infatti è andato tutto male o quasi: i medici e i governanti si disperano per la tenacia con cui quasi un cittadino su cinque si sottrae, con le motivazioni più svariate, alla somministrazione di un vaccino che pure, al suo arrivo, era stato reputato un segno classista di privilegio, con i "ricchi" che saltavano la fila per andare a farsi vaccinare a Dubai. Di contro, un'armata di perplessi ha fatto del rifiuto verso il siero una bandiera ideologica, filosofica, morale, per una saldatura innaturale tra anarcoribellismo, scontento sociale ed espressione della rabbia degli esclusi.
Nessuno ha voluto cogliere il nesso tra i borbottii che promanano dal basso della società, talvolta esplodendo con la regia dei soliti noti sospetti di doppiogiochismo, e il vero dato delle ultime elezioni locali, interpretate come la grande rivincita del PD e degli antisovranisti, quando si è trattato in realtà di qualcosa di simile alla partita di calcio del 1973 tra Cile e URSS, inscenata per finta allo stadio di Santiago, dove i sovietici non si erano presentati per protesta contro il golpe Pinochet e ai cileni era bastato battere il calcio d'inizio e portare il pallone in porta per vincere, con l'arbitro a dichiarare fine partita per assenza di chi avrebbe dovuto riprendere il gioco a centrocampo. A Roma come a Torino, a Milano come a Napoli anche i sindaci vincitori partono da sconfitti, perché non hanno portato al voto almeno la metà degli elettori, e quasi sempre la diserzione coincide con quelle "periferie" da cui "ripartire", con quei "territori da ascoltare", quando alle politiche il voto di opinione torna a prevalere su quello di valutazione concreta. "Periferie" e "territori" da cui sorge gran parte della massa che alimenta i dissidi e le paure e i dubbi che alimentano questa terza guerra civile tra italiani, meno cruenta di quella divampata dopo l'armistizio di Cassibile, più riconoscibile di quella degli anni Settanta tra Piazza Fontana e la dualità Ustica-Bologna quando chi stesse con chi non siamo ancora riusciti a capirlo neppure oggi.
Allora erano tempi di maschere e pugnali, ora solo di mascherine e siringhe non senza il grottesco delle braccia finte che fanno tanto Mastroianni nei "Soliti ignoti", segni che imperversano in una riformulazione plumbea di un carnevale senza scherzi, dove ogni opinione vale e mai come stavolta l'idea di "conclusione" e quella di "obiettivo" si riassumono semanticamente nella parola "fine".
IL COMMENTO
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