Cronaca

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Probabilmente, in quest’ambito, la mia è una generazione di sopravvissuti: la generazione di alunni per i quali il maestro aveva sempre ragione; la generazione di alunni che per il maestro provava il giusto timore e il massimo rispetto; la generazione di alunni che mai si sarebbe permessa di mettere in dubbio quanto affermava; la generazione di alunni che le rarissime volte che provava a lamentarsi a casa per un'ipotetica ingiustizia che pensava di aver subito trovava nei genitori un inaspettato nemico e un mortificante alleato del proprio insegnante. A prescindere. “Se ha fatto così, avrà avuto le sue ragioni, hai comunque torto”. Punto. Non si fiatava, non si ribatteva, non c’era spazio per nessuna forma di confronto o di dialogo montessoriano. Si accettava. Come un dogma, come un postulato, come un assioma, qualcosa che pur non essendo dimostrato è considerato vero e assoluto. Col senno di poi aggiungerei: giustamente.


Oggi le cose sembrerebbero andare in maniera diversa. Ho parecchi amici che insegnano e spesso mi hanno raccontato, per esperienze personali o confidenze riportate da colleghi, che non è più così. Che la maggior parte dei genitori, cioè, tende a difendere comunque e –anche qui- a prescindere i propri figli vedendo in chi sta dietro la cattedra se non un nemico, di certo non un alleato nella loro educazione e nella loro crescita. Sempre pronti a sindacare, contestare, protestare per presupposte ingiustizie subite dai ragazzi in un malinteso senso di protezione e tutela che non fa bene a nessuno. Senza rendersi conto che così facendo finiscono in qualche modo per delegittimare davanti agli occhi dei figli l’unico importante punto di riferimento che chi ha otto/dieci anni (ma il discorso, secondo me, non cambia molto neppure nelle medie, sia inferiori che superiori) trova al di fuori della famiglia. Perché se comunque il rispetto e la stima un insegnante deve saperseli conquistare è altrettanto vero che una sorta di ‘investitura’ gli deve essere riconosciuta anche dall’esterno, e dai genitori in primis.


Devo però confessare che nel fare queste considerazioni sono di parte: mia madre faceva la maestra. Una maestra che all’inizio della carriera si prendeva la sua brava corriera alle sei del mattino da piazza della Vittoria per andare ad insegnare a Sottocolle, frazione di Davagna, tornando a casa alle tre e mezza passate e che l’ultimo ciclo prima di andare in pensione, pur avendo maturato tutti i diritti per lavorare nella scuola che aveva a trenta metri da casa, ha preferito farlo in un altro quartiere perché –mi diceva- la casuale frequentazione che si sarebbe venuta a creare con i genitori dei suoi alunni negli incontri più o meno quotidiani dal panettiere, dal fruttivendolo o magari semplicemente per la strada, avrebbe inevitabilmente creato una familiarità che poteva far venir meno quel piccolo ma fondamentale distacco che -secondo lei- nella separazione dei ruoli era determinante per alimentare il rispetto reciproco che insegnanti e genitori devono avere tra di loro. Quel rispetto che oggi, purtroppo, forse si è perduto.