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Luca Massa unisce la sua professione alla passione per la speleologia
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E’ certamente qualcosa di estremo e unico dal momento che girare un film in una grotta vera, non ricostruita, a quattrocento metri sotto il livello del suolo è un’impresa che ha davvero dell’incredibile. Perché ‘Il buco’ di Michelangelo Frammartino, uno dei film italiani in concorso a Venezia che ha ricevuto un premio speciale dalla Giuria, racconta la storia vera di una spedizione di speleologi torinesi che nel 1961 si addentrarono all’interno della grotta più profonda d'Europa nell'incontaminato entroterra calabrese, l’abisso del Bifurto, all’interno del parco del Pollino, a 700 metri di profondità. Dietro la macchina da presa c’era un genovese, Luca Massa, che per questo film a Venezia è stato premiato con La pellicola d’oro, il riconoscimento assegnato annualmente agli artigiani e ai tecnici cinematografici, categorie altamente specializzate che lavorano nell’ombra ma concorrono in modo insostituibile alla realizzazione di un film.

Come è nata la collaborazione con Frammartino? “Nella fase di preparazione gli era arrivato il mio nome come cineoperatore in grado di muoversi in ambienti complessi come poteva essere la grotta del Bifurto. Io ho una vecchia passione per la speleologia che negli anni ho unito al mestiere per cui sono conosciuto come l’uomo adatto a questo tipo di lavoro, e alle mie due competenze”
Per un genovese la passione per la speleologia è qualcosa di abbastanza curioso “La Liguria è una regione anche di montagne, ci sono molte grotte, piccole e grandi, importanti e meno importanti. Io sono un appassionato di alpinismo e a un certo punto mi è nata questa passione. Sono cresciuto come speleologo nel gruppo del Cai di Bolzaneto”
Come vi siete organizzati? “Frammartino era già sceso nella grotta parecchie volte negli anni precedenti. Quando sono arrivato in Calabria, per due settimane siamo scesi insieme quotidianamente e lui mi indicava dove pensava di fare le diverse inquadrature nei meandri e nei diversi pozzi. Io mi sono segnato ogni punto e ho iniziato a costruire le varie postazioni dove poi avremmo messo la macchina da presa”
Che esperienza è stata? “La ritengo una delle più grandi e più belle della mia vita perché abbraccia due passioni, la speleologia e il mio mestiere di cameraman, non potevo immaginare niente di meglio. Poi l’attrezzatura era di altissimo livello per cui anche la qualità delle immagini si è rivelata ottima. Per sei settimane ogni giorno siamo entrati in grotta, una grotta quasi completamente verticale quindi tutta a pozzi, ci siamo calati con le corde e siamo risaliti nello stesso modo. Dal momento che siamo scesi fino a quattrocento metri di profondità, quando eravamo nelle parti più basse sono state permanenze anche superiori alle venti ore: parecchio tempo per scendere, poi la preparazione della camera e dell’attrezzatura, le riprese e infine la risalita lenta, in certi casi quasi eterna”
C’è stato qualche momento di preoccupazione? “Nessun incidente, la troupe era molto ridotta, avevamo l’appoggio di speleologi esperti quasi tutti del sud Italia. Piuttosto le preoccupazioni erano tutte mie, dall’inizio alla fine, nel senso che ero l’unico a conoscere i due mestieri per cui è stato un ruolo difficile e molto pesante da un punto di vista emotivo. Per fortuna per me la difficoltà maggiore era soltanto quella di girare delle ottime immagini, nel senso che nell’ambiente-grotta sono a mio agio e dunque nessuna agitazione o ansia per l’ambiente ma esclusivamente per il lavoro che dovevo fare”