cronaca

La demolizione col Semtex della parte rimasta intatta dopo il disastro del 14 agosto 2018
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 Era il 28 giugno di due anni fa. L'ultimo sospiro del Moro è il più bello e dolente dei romanzi di Salman Rushdie, la solitudine di un collezionista di tramonti inseguito dall'ombra, quindi il titolo è: L'Ultimo Sospiro del Morandi.

Quando i genieri hanno aperto gli idranti e tutto attorno è dilagato il silenzio, violato solo dal canto degli uccelli chissà se davvero ignari, tutti capimmo che era cominciata davvero la fine.

Qualcuno come me, fino a quel momento, aveva sperato che andasse come in un film americano degli anni Cinquanta, di quelli dove i buoni tribolano per tutta la pellicola ma alla fine vincono. Poteva pure accadere che venisse fuori uno a dire: fermi tutti, perché continuare ad ammazzarlo, piuttosto ripariamolo, è così bello.

Ma gli idranti hanno continuato a creare una nebbia candida, il tempo sembrava essersi inceppato nell'assenza di ogni suono. Avevamo imparato a voler bene a quel gigante vecchio e ferito dentro, là dove la corrosione non si vede, che si era stancato di se stesso. E adesso ci dispiaceva essere lì, come quando porti il tuo cane o gatto che non ce la fa più, perché gli pesa il tempo, dal veterinario per la puntura. Farà male più a te che a lui.

Poi all'improvviso tre squilli di sirena e poi il silenzio, e infine il silenzio ha cambiato colore, e sul ponte sono fiorite le guglie del Duomo di Milano. Non era un'allucinazione, quegli scoppi d'acqua verticali e paralleli richiamavano un dipinto di Rodolfo Viola, ma neppure il tempo di pensare a quell'analogia che il ponte si è dissolto in quel biancore spumoso, quasi se lo fosse mangiato un banco di nuvole sceso apposta, è venuto giù in un attimo, a tutti noi è rimasto solo il tempo di sillabare oddio, oddio, come aveva fatto quel signore che stava a Campi quella mattina dello scorso agosto, in un attimo è finito tutto.

E allora tutti ci siamo scoperti con gli occhi rossi davanti a quello schermo che trasmetteva l'immagine fissa di un vuoto, perché ormai la Val Polcevera era vuota e quando ci sarà un altro ponte non sarà mai la stessa cosa.
Ogni tanto riappare alla mente, in un battito di palpebre, l'attimo in cui il ponte scompariva per sempre, nascosto da quei pinnacoli abbaglianti che imprigionavano la polvere come un sudario, nella sovrapposizione di quell'immagine ai cipressi dell'Isola di Böcklin.

Gli incursori e gli artificieri avevano raffigurato inconsciamente un gigantesco camposanto d'acqua, solo adesso lo capivamo. Così oggi come allora il ricordo diventa preghiera per le 43 anime volate via in un mezzogiorno d'inverno in pieno agosto, come diceva Mick Jagger: niente colori, tutto dipinto in nero, io volterò la testa fin quando arriva il nero.