cronaca

L'affondo democratico di Campora, Sanna e Romeo
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Quello che ha più di rosso, indossa la giacca del milite di Croce Rossa.


Gli altri due sono cresciuti bianchi 4.0 dentro.

L'ultimo europeo a vincere la mezza di Genova, prima dello strapotere africano, Armando Sanna, ha costruito il proprio bacino elettorale dove un democristiano doc, come Giulio Torti, ha governato 40 anni (senza social). Lui l’ha ascoltato, non l’ha rottamato, ma è andato ben oltre Sant’Olcese, conquistando tutta la valle con la sua corsa da ex podista, costituita da sorrisi, soprattutto rivolti agli avversari interni che gli pronosticavano un massimo di 800 preferenze regionali, a fronte delle 6000 rimediate in tutto il genovesato.

L’altro, Federico Romeo, è nato quando la Bolognina era già passata da un pezzo: il Pci l’ha conosciuto nello speciale di Primocanale del centenario, recentemente, firmato da Mario Paternostro e, forse, un po’ nei racconti della vicina di casa, Marta Vincenzi, che a differenza di altri, almeno umanamente, lui, non ha mai abbandonato.

Il crocerossino, Giancarlo Campora, sindaco di Campomorone, sebbene con frequentazioni mai nascoste da volontario laico sul versante della Guardia, invece, è l'unico che l'epoca diesse, almeno, l'ha vissuta da dentro. E l'ha declinata, sempre, con un riferimento politico costituito da Giuseppe Dossetti. A lui deve essersi ispirato per non mandare tutti al diavolo quando, nel 2015, proprio alcuni "rossi" gli sbarrarono la strada per via Fieschi creando una guerra interna con il collega di Mignanego, Michele Malfatti, che rese l'alta valle senza alcun riferimento.

Ora, perché la sinistra genovese (e ligure) non può prescindere dai tre moschettieri del monte Figogna?

Per il consenso, basterebbe quello.

Siccome di mezzo c'è un partito che nell'ultimo decennio non si è distinto per premiare il merito, portando in parlamento e in ruoli apicali autori e autrici di sonore sconfitte nonché gente in fuga davanti alle difficoltà, servono pure altre motivazioni.

Perché la Valpolcevera che, per il mondo, si riduce troppo spesso a un Ponte, tanto tragico quanto simbolico, loro la vivono e la raccontano non da sud a nord, ma da nord a sud. Non solo questione di prospettiva. Dire: “Vado a Genova” è una visione che solo chi vive lì può comprendere appieno facendo ogni mattina e ogni sera un'ora di coda per rientrare a casa.

Perché, senza dimenticare che vengono da montagne intrise di sangue partigiano, accettano il confronto anche con chi, per la loro gente, sta "dall'altra parte" e “quando sbagliano – perché non sono infallibili – sanno ancora chiedere scusa”.

E, soprattutto, perché rappresentano un territorio preso a schiaffi per troppi anni, in cui amministratori ed elettori, in nome della militanza, gli schiaffi li hanno presi in silenzio "per senso di responsabilità". Oltre alle logiche ambizioni personali - che avranno come tutti - vanno ricercate le motivazioni perché in un Pd in picchiata nella propria popolarità, i tre, sono stati esempi - non unici, ma isolati - di chi ha ridato vita a una speranza di cambiamento. Insomma, una sorta di avvertimento inviato da gente che ha subito tradimenti in serie e non si rassegna a votare in modo differente: l'ultima occasione, prendere o lasciare il campo a quelli “dell’altra parte”.

E con la storia della sinistra come la mettiamo?

“Con il consiglio di Don Gallo, imbarcare tutti e allargare gli orizzonti con dialogo e pazienza” dice un vecchio Compagno di Pontedecimo. Che aggiunge: "La nostra storia non si sbandiera, si coltiva. Non servono etichette, ma fatti".