salute e medicina

L'analisi di Laura Casalino, riferimento Arca Liguria
4 minuti e 21 secondi di lettura

“La prima ondata pandemica ci ha, senza dubbio, travolto e stravolto. Quando il virus ci ha attaccato, ci ha frastornato, impaurito e, impreparati, l’unica soluzione è stata quella di fermarci. Il mitologico “Deus ex-machina” ha tirato l’enorme leva del freno della nostra bellissima e intricatissima società che, proprio come i complicati ingranaggi di un immenso orologio, tra stridii e cigolii si è arrestata. Gli unici ingranaggi a rimanere ostinatamente in attività sono stati quelli coinvolti nella lotta faccia a faccia contro il “mostro”, e infatti, anche la cura delle patologie croniche è stata sospesa”.

 

Ad affermarlo è Laura Casalino, presidente dell’Associazione regionale dei cardiologi di Liguria. La sua è un’analisi condivisa con i colleghi che si occupano di territorialità.

 

“Dibattuti tra la necessità di non far uscire le persone e di curarle si è scelto ciò che ci sembrava il male minore. In realtà, fin da subito, si è capito che questa scelta avrebbe presentato un conto salato. Bisogna però riconoscere, a onor del vero, che oltre a innumerevoli difetti, la nostra specie è dotata di molti pregi. Quello, a mio parere, più strabiliante è “l’adattamento”. L’adattamento, infatti, si porta dietro il superamento del problema e così è stato. Fin dalle prime settimane post-lockdown, c’è stata una vera e propria corsa alla riorganizzazione del territorio e, in un tempo accettabilmente breve, la macchina della gestione della cronicità si è rimessa in moto. Il risultato è stato molto buono: le forniture dei DPI (dispositivi di protezione individuale), lo screening dei pazienti, le riorganizzazioni delle agende hanno reso il territorio un posto sicuro dove ricevere cure” prosegue la cardiologa.

 

Tuttavia, da quell’ambizioso progetto ossia essere efficaci in sicurezza pare transitata molta strada. E, oggi, appare come storia già passata.

 


“Infatti, ora siamo ancora di fronte a una sfida che, se non vogliamo sia una “nuova” sfida, a meno di non voler essere considerati esseri diabolici, dovrà essere trattata sfruttando ciò che abbiamo imparato nei mesi scorsi. Partiamo dal concetto che cronicità e urgenza non sono, rispettivamente, sinonimo di meno grave e più grave. Tra cronicità e urgenza esiste una relazione temporale: due categorie cliniche legate alla fase di malattia nelle quali, lo stesso paziente, può transitare più volte in entrambe le direzioni. Cronico non significa meno grave. Il malato oncologico cronico o il cardiopatico cronico, solo per citare due esempi, non sono meno gravi perché meno urgenti. Ecco perché, nella gestione di questa seconda ondata pandemica, diventa fondamentale non cedere alla paura e alle soluzioni semplici per problemi complessi (soluzioni comprensibili solo se arrivano da non addetti ai lavori, altrimenti inaccettabili), ma occorre tenere fermo il timone sulla rotta tracciata dalle lezioni acquisite nei mesi scorsi, e una delle lezioni più importanti ricevuta potremmo riassumerla così: “non abdichiamo alla cura delle cronicità”.


Se lo faremo otterremo solo due nefasti risultati: il primo sarà l’instabilizzazione clinica di moltissimi malati cronici i quali, divenendo malati urgenti, si riverseranno nei pronto soccorso dei nostri ospedali; il secondo è che tantissimi pazienti, specialmente i più fragili e soli (e sono tanti) non avendo più, da mesi, alcun punto di riferimento medico raggiungibile cercheranno risposte e conforto nel luogo meno indicato ma l’unico accessibile: il pronto soccorso, anche in assenza di reale urgenza clinica”.

 

Da qui la conclusione del ragionamento della presidente di Arca Liguria in sinergia con molti medici attivi quotidianamente sull’intera regione: “In parole povere, abdicando alla cura delle cronicità otterremo soltanto un aumento degli accessi, appropriati e non, nei nostri ospedali. Fatte queste considerazioni, credo fortemente che sia il momento non solo per tenere aperto il territorio, ma anzi per rilanciarlo e potenziarlo anche attraverso un implemento dell’uso della tecnologia sanitaria. Questo è, per tutti noi che da anni ci dedichiamo completamente al territorio e alla gestione delle cronicità (specialisti ambulatoriali e dirigenti medici), il modo pratico di sostenere e aiutare i colleghi ospedalieri e i medici di medicina generale facendoci carico di una parte del lavoro che adesso non riescono più a gestire. Gli ospedalieri perché costretti a chiudere o ridimensionare fortemente i loro ambulatori per concentrare tutte le energie sulla moltitudine di pazienti ricoverati nei loro reparti. I medici di medicina generale perché coinvolti direttamente in nuove e importanti pratiche di tracciamento dei casi Covid nonché nella gestione clinica domiciliare dei pazienti Covid stessi”.

 

Infine, l’appello che profuma di esortazione: “Non chiudiamo il territorio, anzi, rinforziamolo. Puntiamo ancor più su di esso per non lasciare soli al loro destino migliaia di pazienti e per venire in aiuto, con i nostri mezzi e le nostre competenze, ai colleghi che operano nei reparti e nei pronto soccorso dei nostri ospedali, tenendo bene a mente che un malato cronico tenuto stabile è un paziente in meno che va in pronto soccorso”.