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Il 19 maggio 1991, con il 3-0 al Lecce, i blucerchiati di Mantovani, Boskov e Vialli diventavano Campioni d'Italia
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 “Attenti al lupo”, che poi era quello di “quando del lupo l'ululato sentiranno”. “Quattro amici al bar”. “Ragazza, noi siamo bugie del tempo”. Ogni maledetto 19 maggio, i sampdoriani ricordano ognuno una sua canzone. Per non parlare di “Abbiamo un sogno nel cuore, vincere il frullatore”, perché di “tricolore” non se ne parlava. Quando lo Scudetto planò sulla Genova blucerchiata, ventinove anni fa, quasi nessuno ci credeva davvero. Era l'apoteosi del Sogno di Paolo Mantovani che, sceso dodici anni prima dalla sua astronave, aveva costruito a poco a poco una delle squadre di calcio più belle di sempre, che poi a ripensarci tutto era tranne che una squadra di calcio. Era allegri gioventù, era c'eravamo tanto amati, era la dolce ala della giovinezza.


Fu un amore, amici, che non poteva durare. Due anni dopo Paolo disse: adesso io vado a dissolvermi in cometa, quanto basta per non sentirlo più il ritmo strano della vita. E tutto divenne ricordo. Era cominciato in autunno, quattro tocchi al volo per un gol nella stessa porta dove un girone dopo Pagliuca avrebbe parato in due tempi il rigore a Matthaeus, prima della capriola di Vialli, era il tardo pomeriggio del cinque maggio. Ricordi come siamo stati belli? Dopo nessuno è stato più bello così. Ancor oggi, che sono passati ventinove anni, chi l'ha visto e chi non c'era insegue una sua chimera: risale sulla giostra della memoria e ritrova i campioni di allora, ingrigiti nei capelli quelli che sono rimasti, qualche ruga in più, sempre gli stessi ragazzi che sapevano di aver fatto qualcosa che sarebbe rimasto per sempre, tra le pagine chiare e le pagine scure. “Lo Scudetto della Sampdoria”, a raccontarlo oggi non sembra neanche vero. E in effetti forse nessuno, tra chi stava a bordo campo a vedere il rumore della felicità, si rendeva conto di quel che era appena accaduto, con quel 3-0 al Lecce davanti a 45mila cuori in allarme per una partita durata invece appena mezz'ora.

Qualcuno di loro ha vinto tutto, perfino quella Coppa che resta il magone più grande non fosse che perfino il Padreterno lascia una maglia strappata nella perfezione di ogni tessitura, ma tutti ritornano a quel 19 maggio 1991 come al perfect day, al sogno lungo un giorno, a un'emozione da poco che diventa tutto. E a riaffacciarsi sul pozzo del tempo, di fronte a quelle foto e a quei filmati che fanno dire a ognuno dove fosse, in quale punto dello stadio, viene da pensare che non c'è niente di più triste in giornate come queste che ricordare la felicità. Quella Sampdoria non c'è più e non tornerà più. Or non più batte che l'ala del mio sogno: mi rendo conto di aver già scritto troppe volte il vocabolo “sogno” in questo pezzo, ma non ci posso fare niente, andò così, come il rammarico imperdonabile di aver costretto quel giorno, per rispettare la scaramanzia, a vedere la partita seduto su uno scalino un genio come Arnaldo Bagnasco. E allora cedo la parola a uno dei più acuti tifosi sampdoriani, che proprio quel giorno lasciò una testimonianza incantevole: “Invecchiando, l'amore per una squadra è una macchina meravigliosa - disse Paolo Villaggio - che ti consente di ritornare ai ricordi più profondi, quelli più felici, quelli dell'infanzia. Quindi io uso biecamente l'amore per la Sampdoria per ricordare il periodo più felice della mia vita, l'infanzia. Infatti oggi è un viaggio nel tempo”. E quel giorno – per chi la capisce - Bulbem non segnò.