cronaca

Il commento
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 E' caduto il ponte Morandi e poi è caduto il ponte dei soldi, del risparmio, del credito nel luogo dove le banche sono nate. Ecco perchè l'occhio e la penna di Salvatore Merlo e del “Foglio” si sono così doviziosamente fermati su Genova, chiedendosi, addirittura, se l'Italia si sia per caso fermata a Genova, così come Cristo si era fermato a Eboli.


Tanta minuziosa attenzione, tanto precisa introspezione nelle pieghe doloranti della ex Superba hanno come sempre un doppio effetto. Da una parte si crea la sensazione che Genova sia diventata l'epicentro delle sciagure, appunto la capitale della sfiga e che sia, quindi, corretto andare a scavare nei suoi detriti, in queste macerie così diverse, prodotte da un crollo vero e proprio e dal disastro della banca-mamma della città e della Liguria.


Insomma tutti i mali avvengono in questo posto lungo e stretto, tra il mare e le montagne, così mirabilmente descritto dal superarticolo. Dall'altra parte l'effetto è di misurare una grandezza potenziale, che ha sue profonde radici nella storia, indietro fino ai prestiti finanziari a Carlo V, alla potenza marinara e che ora è venata, incrinata nella sua anche sfolgorante bellezza e, quindi, bisogna studiare a fondo il carattere dei genovesi, il loro karma, per non dire i loro geni e stabilire che tutto questo non si ferma, nè a Eboli, né a Genova, ex Superba.


In conclusione: una visione negativa e una più potenziale di questa città in bilico. Un test italiano tra la storia e l'emergenza dell' attualità.
Come ha descritto bene Mario Paternostro ci siamo trovati davanti all'ennesimo racconto da ritagliare e conservare dei tanti che i giornalisti, più o meno importanti, più o meno bravi, negli ultimi decenni sono arrivati a dedicare a Genova, quasi stendendola su un lettino da psico analisi.


Nel Dopoguerra è successo tante volte, almeno ripartendo da quel leggendario 30 giugno 1960 della rivolta anti Msi dei camalli in maglietta a striscie, continuando con il primo centro-sinistra italiano, nato a Genova nel 1961, poi con i micidiali “Anni di piombo”, di cui eravamo la capitale iniziale, le relative tragedie, la città colpita al cuore dal mostro con la stella a cinque punte delle Br, andando avanti con la grande crisi postindustriale e la trasformazione del tessuto socio-economico, il crollo delle grandi aziende Iri, senza dimenticare le mitiche battaglie degli stessi camalli di Paride Batini contro la privatizzazione del porto pubblico e impattando, poi, anche grandi fatti cone lo sventurato G8 del 2001, nel quale Genova era stata come sventrata dalla violenza globalizzante, mentre moriva il ragazzo Carlo Giuliani. E quante ce ne saremo dimenticati di occasioni nelle quali la sesta città italiana è finita su quel lettino psicoanalitico-giornalistico, squadernata, raccontata, interpretata da penne più o meno autorevoli, da reportage più o meno approfonditi.

Questa volta le tre pagine intere del Foglio (un record di ampiezza) sono state provocate proprio dal quasi simultaneo crollo dei due ponti, caduti sostanzialmente e anche metaforicamente, in una sequel di ossimori che Salvatore Merlo inanella con geometrica precisione. Due ponti che tenevano insieme l'anima di Genova.


Il ponte di cemento compresso, acciaio, stralli, tiranti e asfalto, non era solo lo scavalcamento firmato Morandi della Valpolcevera, ma rappresentava pure il simbolo alato della vocazione infrastrutturale di una città geneticamente, e poi stabilmente, destinata a collegare se stessa a se stessa, ma poi anche al resto di un grande territorio, che il progressivo sviluppo delle relazioni umane, economiche e sociali, ha amplificato fino a trasformare la vocazione nell'essenza stessa, nella ragione intrinseca di collegare, comunicare, relazionare.
Il ponte della Carige, crollato in un delirio di svalorizzazioni, perdite patrimoniale, caos aziendali, cambi di vertici, fulmini di Banca d'Italia e di Bce, valzer azionari, rovine individuali di piccoli risparmiatori, segna la debacle del rapporto tra il genovese e le sue palanche, che sono esse stesse, come la comunicazione, i siti mobiliari e immobiliari, il patrimonio genetico inalienabile e apparentemente indistruttibile, in secula seculorum, tornando sempre indietro nella storia.


Ora il problema è se questi due crolli, metaforicamente, e non solo, simultanei, segnano il declino della città, se marcano il punto fino a stabilire che non solo Genova, ma anche l'Italia intera si sono fermate. A questo da risposta l'articolessa di Merlo, a questa domanda risponde il suo viaggio su e giù per le metafore, gli ossimori della ex Superba.
Può veramente Genova diventare il capolinea dell'Italia declinante: la città pilota di quanto si estende in tutto il Bel Paese, tra un vaffa rimasticato del genovese Beppe Grillo, tra un verso poetico del cantautore, appena stracelebrato e strastrumentalizzato, Fabrizio De Andrè, in un sistema governato da un sindaco più funzionale che leghista, come Marco Bucci, in una Regione dove dilaga mediaticamente, Giovanni Toti, il presidente onnipresente e onniparlante, in un humus nel quale le stimmate genetiche alla fine non si scompongono: la taccagneria, l'understament viscerale, l'immutabilità trentennale dell'establihment zeneise, centro sinistra, centrodestra e grillini invischiati nella palude, tanto da non avere neppure conquistato un ballottaggio elettorale?


Forse la riposta sta in quell'immagine che ammalia un po' il giornalista-narratore. Le navi che vanno e vengono incessantemente dentro e fuori il porto, sottolineando un movimento perpetuo, anti sfiga e anti immobilismo, anche oltre i ponti caduti. L'Italia finisce a Genova o forse (ri) comincia. A Genova. Appunto.