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Il caso Imperia e il monito di Rosy Bindi
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"Imperia è la sesta provincia della Calabria". Così parlò Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, dopo aver spulciato per giorni le liste dei candidati alle prossime amministrative. Sono spuntati quattordici impresentabili, nessuno dei quali a Diano Marina, il comune imperiese più grande che domenica va al voto e in forte odore di infiltrazioni 'ndranghetiste, al punto da aver evitato per un soffio lo scioglimento.

Eppure, nonostante la pulizia ufficiale delle liste, la Bindi se ne esce con quella battuta sferzante, che pesa come una sentenza. A prima vista, quasi un atteggiamento persecutorio. "Un'offesa per tutto il territorio", replica a muso duro il sindaco dianese leghista Giacomo Chiappori, a lungo in bilico sul burrone giudiziario (un rinvio a giudizio lo ha rimediato, ma più leggero) prima di ributtarsi nella mischia.
 
Paradossalmente, però, sono proprio le sue parole a rendere credibili quelle della Bindi.  La quale, per inciso, non ha detto che in provincia di Imperia sono tutti mafiosi, ha detto che "Diano Marina potrebbe essere un caso interessante" riferendosi al fatto che i clan, le famiglie, le cosche - chiamatele come volete - possono piazzare i loro uomini nella politica riuscendo a passare quasi inosservati.

Difficile cogliere rilievi offensivi a meno di voler chiudere gli occhi davanti alla realtà. L'affermazione della Bindi è ai limiti del banale. La provincia di Imperia è storicamente intrisa di mafiosita' e solo se si compie un imperdonabile esercizio di rimozione si può affermare il contrario. O giudicare offensive certe osservazioni.

Certo, le generalizzazioni vanno evitate, ha ragione Chiappori, ma la Bindi non commette questo errore. Facciamoci venire il dubbio che se parla in un certo modo lo fa dopo aver letto le carte, ascoltato persone, verificato situazioni. Tanti difetti si possono addebitare alla presidente dell'Antimafia, non quello di sproloquiare su argomenti che ha approfondito. Del resto, ha gli strumenti per farlo, anche se ancora vengono ritenuti insufficienti.

Non bisogna dimenticare, poi, che è esattamente quando la mafia, nello specifico imperiese soprattutto la 'ndrangheta, sembra sparita che bisogna preoccuparsi di più. Per convenzione e per naturale reazione emotiva, siamo portati a percepire di più la presenza dei clan quando sparano, uccidono, bruciano i negozi che rifiutano di pagare il pizzo, fanno saltare per aria i cantieri. In quei momenti scattano le misure di emergenza. Ma quelli in verità sono i momenti di debolezza della mafia, le fasi in cui non riuscendo a gestire i propri loschi affari sotto il pelo dell'acqua, riemerge e si fa sentire eccome. Purtroppo.

Invece, è quando i "picciotti" paiono spariti dai radar che bisognerebbe preoccuparsi maggiormente. Il territorio sembra bonificato perché nulla di eclatante accade, ma è solo perché il business fluisce che è un piacere (per loro) e, anzi, qualsiasi azione di un certo clamore diventa elemento di disturbo.

Nel rapporto con la politica è un po' la stessa cosa. Sembrano non esserci, i mafiosi, e invece ci sono. Questo è il monito che ci arriva dalla Bindi. Si infiltrano soprattutto nelle liste civiche, moda recente fatta propria da partiti che spesso non vogliono metterci la faccia, ma possono comparire allegramente anche in quelle ufficiali. Ormai, i clan possono contare su soldati capaci di passare inosservati. E con fedine penali immacolate.

Quest'ultimo elemento in particolare dimostra come sia necessario alzare altre barriere, ricorrere ad altri strumenti per stabilire se, come e quando il crimine organizzato c'è anche se non si vede. Il tasto è delicato, tocca questioni difficilissime da gestire. Investe situazioni e persone terze che a volte sono inconsapevolmente utilizzate dai mafiosi e comprensibilmente si adontano, sentendosi accomunate ad essi. Una cosa, però, può aiutare: l'umiltà di capire che nessuno, persino al di là della propria volontà, può sentirsi davvero al riparo da questa infezione.