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Referendum abortito e spigolature anche del risultato ligure
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Se vogliamo dare una lettura politica al voto referendario in Liguria, il dato che balza agli occhi è che la provincia più anti-renziana, per il dato dell'affluenza alle urne (oltre il 33 per cento) è quella di Savona. Dove il Comune capoluogo è retto da Federico Berruti, un renziano della primissima ora, e dove si andrà al voto nel giugno prossimo. Per converso, quasi a testimoniare che qualche fondamento potrebbe esserci nel ritenere il premier l'ideale continuatore di Silvio Berlusconi, la provincia che meno ha frequentato i seggi è quella di Imperia (un pelo più del 28 per cento di votanti).

Matteo Renzi, però, dice che al referendum appena abortito non va assegnato alcun peso politico e che sono stati i suoi avversari, smaniosi di "fare una conta", a caricarlo di significati extra. Naturalmente le cose non stanno del tutto così. Renzi stesso ha fatto della consultazione una prova generale del referendum (non servirà il quorum) che in autunno chiamerà gli italiani a confermare o bocciare la riforma costituzionale e le sue considerazioni a caldo dopo la vittoria non paiono quelle di un'alta carica dello Stato rimasta neutrale.

L'invito a non votare rivolto agli elettori testimonia che il premier non è rimasto a guardare, né si è limitato a sostenere il fronte del "no", come sarebbe stato legittimo per difendere le scelte del governo. Sappiamo tutti che nel referendum il non voto può essere un'espressione politica attiva, lo stabilisce la Costituzione nell'indicare l'esigenza del quorum, ma questo diritto, per ragioni di opportunità, dovrebbe essere accantonato da tutti coloro che, dal livello nazionale a quello locale, i voti li chiedono per poter occupare poltrone e posizioni di potere. Stracciandosi le vesti mano a mano che si ingrossa l'esercito degli astensionisti alle consultazioni politiche e amministrative. Ma di cose inopportune la politica e i politici italiani ne fanno tutti i giorni. Una in più non modifica giudizi e disaffezione, tuttavia lo spettacolo inverecondo offerto nella circostanza rimane in tutta la sua pesantezza.

Rimane anche l'amara constatazione che la maggioranza degli italiani non vuole essere governata bensì comandata - e difatti al capo di turno si assoggettano a milioni con una leggerezza di spirito degna di miglior causa - ma proviamo ad andare oltre.

Renzi e i suoi sodali di periferia, Liguria compresa, dovranno comunque fare i conti con 14 milioni di elettori che dissentono anche profondamente. In vista del referendum sulle riforme non è un dato irrilevante, perché lì si salderanno molto più concretamente tutte le posizioni anti-renziane, pur variamente originate.

Ancor prima, bisognerà vedere il risultato delle amministrative a Milano, Roma, Napoli, non propriamente dei banali condomini. E nella stessa Savona, il Comune ligure più grande chiamato a scegliere il nuovo sindaco. Sebbene il voto locale risenta di influenze non replicabili nelle politiche, non c'è dubbio che Renzi si spenderà almeno per le città più importanti e allora l'esito della consultazione avrà giocoforza connotati che andranno oltre i confini delle singole municipalità. E Savona avrà i riflettori addosso essendo il,primo test successivo al disastro delle regionali liguri (dopo primarie choc, con lacerazioni non ancora ricomposte) perse dai renziani della seconda e terza ora.

Da Pirro in poi, sappiamo che vincere una battaglia non significa vincere la guerra. Sia chiaro, sul referendum ribattezzato "no trivelle" Renzi ha vinto e i promotori hanno perso. Ma non so se il quorum sarebbe egualmente sfumato se la consultazione fosse stata abbinata alle amministrative. La controprova non c'è, però Renzi ci risparmi almeno il soffietto sulle spese inutilmente sostenute per andare al voto.

Se avesse promosso, come poteva, l'election day, questi 300 milioni di euro li avremmo risparmiati. Il che dimostra che la politica delle strumentalizzazioni abita anche a Palazzo Chigi, non solo fra coloro che il premier carinamente definisce gufi.