economia

L'editoriale
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La ristrutturazione del debito del gruppo Orsero, con annessi spalmatura in dieci anni, aumento di capitale, emissione di strumenti finanziari partecipativi, vendita degli asset “non core” e nuova governance, è una vicenda paradigmatica. Non tanto, o non solo, per declinare il solito delicato passaggio di mano che consegna le redini alla terza generazione, quanto come plastica dimostrazione di come non si deve “fare banca”.

La montagna di debito su cui sta seduta l’azienda savonese specializzata nella produzione e commercializzazione di ortofrutta è pari a 245 milioni di euro. Di fronte a una simile cifra, la domanda sorge spontanea: come ci si è potuti arrivare? E qui sta il cuore della vicenda, la sua simbolicità. Ci sono state iniziative in settori diversi da quello principale – sul quale è radicata l’impresa familiare nata nel 1940 per volere di Antonio Orsero – che si sono rivelate avventurose e, successivamente, fallimentari. Ma questo appartiene alle decisioni dell’azienda, ai rischi che essa, attraverso il suo management e la sua proprietà, decide di assumersi.

Il problema è che lo scotto è stato ed è condiviso dal sistema bancario italiano, cioè un’entità che ad onta del diritto privato al quale risponde svolge una funzione pubblica, non fosse altro perché dovrebbe gestire con il criterio del buon padre di famiglia il denaro che i risparmiatori gli affidano. E’ accaduto, invece, che mentre le nuove attività andavano disvelando la loro fragilità, le banche hanno continuato a dare credito al gruppo Orsero, secondo una logica del tutto sconosciuta alle imprese piccole e medie, men che mai alle singole famiglie. Anziché imporre uno stop che sarebbe andato a giovamento della stessa azienda, è sceso in campo il criterio dell’appartenenza.

Li ricordiamo tutti gli Orsero che si mettono a disposizione dell’allora potente ministro Claudio Scajola, dello stesso premier dell’epoca Silvio Berlusconi e di un intervento come quello inventato su due piedi per impedire che Alitalia finisse in pancia ad Air France. Un’operazione che il tempo ha dimostrato scellerata, modificando solo la destinazione finale (gli sceicchi di Ethiad anziché il colosso d’Oltralpe), e nella quale gli Orsero entrarono a dispetto del fatto che già la loro situazione finanziaria non fosse così florida.

I numeri della ristrutturazione del debito sono lì, impietosi, a raccontare la storia. Dei 245 milioni di indebitamento, quasi 100 sono in capo a Carige e Carisa (40%), mentre la restante parte è nei conti di Unicredit, Monte dei Paschi, Intesa, Bnl e Banco Popolare (in tutto il 60%). Le grandi banche ci sono praticamente tutte e il caso più eclatante è quello di Carige. Oggi è costretta all’ennesimo aumento di capitale milionario perché ci sono stati anni nei quali il suo padre-padrone, Giovanni Berneschi, elargiva crediti non sulla base di piani industriali che avessero le gambe per camminare da soli (e quindi consentire all’istituto di rientrare dei finanziamenti erogati con il giusto margine di guadagno), ma perché la politica sponsorizzava gli amici o gli amici degli amici.

Una politica che presidiava la banca, il vicepresidente era Alessandro Scajola e nel consiglio sedevano esponenti riconducibili all’area Pd, e che ancor più era radicata nel pletorico consiglio di indirizzo della Fondazione. Radici così profonde che consentivano al governatore ligure Claudio Burlando di “cedere” alla Curia di Genova la nomina del rappresentante che invece avrebbe dovuto esprimere la Regione Liguria. A posteriori Burlando se n’è fatto un vanto, cercando di dimostrare come volesse tenersi alla larga da “quella” Carige. Peccato siano a tutti conosciute le sue solide relazioni direttamente con Berneschi, alla medesima stregua di quelle che aveva Scajola, magari diverse per quantità, non per qualità. Un rapporto che giovava ai partiti e anche al potere dell’ex presidente della banca, che così teneva in mano gli uomini dei partiti.

E’ un film visto a diverse latitudini italiane e il cui effetto collaterale è stato quello di aprire la voragine dell’indebitamento nelle aziende “amiche”, la sofferenza crescente del sistema bancario (per crediti via via diventati inesigibili a condizioni ordinarie) e un conseguente riallineamento a parametri europei che tuttora costa lacrime e sangue agli azionisti, compresi quelli piccoli, sia in termini di ricapitalizzazioni (quindi esborso diretto da parte dei soci, se non vogliono rimetterci tutto subito) sia in termini di svalutazione del corso dei titoli azionari.

La pulizia non è ancora finita, se consideriamo che l’attuale management di Carige ha annunciato non solo l’aumento di capitale, ma anche un piano di cessione dei crediti incagliati che potrà arrivare fino a 1,4 miliardi di euro. C’è di tutto, in quella cifra. Ci sono soprattutto operazioni per finanziamenti che a noi umani non è concesso neppure di immaginare. Riguardano Carige come tutte le altre banche italiane. Storie finite? L’accordo sulla ristrutturazione del debito del gruppo Orsero sembrerebbe darci questa buona notizia. Appunto, sembrerebbe.