porti e logistica

3 minuti e 28 secondi di lettura
L’esito dell’assemblea Ucina, la Confindustria del mare, non è per nulla tranquillizzante. La mancata partecipazione di alcuni fra i grandi protagonisti del mercato, infatti, allunga ombre inquietanti non tanto sul destino dell’associazione, quanto sul futuro del Salone Nautico di Genova. Se la cosa si limitasse al conflitto dentro l’Unione (sic!) della cantieristica da diporto, la si potrebbe liquidare come una bega di potere alla quale prestare attenzione giusto per fare un po’ di gossip.

Invece l’effetto collaterale delle divisioni, non rimarginate dall’elezione di Carla Demaria e dalle sue prime, concilianti parole, ha gravi ricadute pubbliche. Basta ricordare che Ucina controlla al cento per cento una società chiamata “I Saloni Nautici”, la quale ha in portafoglio la gestione del più importante evento genovese – finora anche a livello nazionale – nel settore. In quella società sarebbe dovuta entrare la Fiera di Genova, ma ciò non è fin qui avvenuto per le difficoltà finanziarie dell’ente oltre ad una serie di ostacoli tecnico-procedurali.

Ora, è pur vero che il marchio è in capo proprio alla Fiera, ma è del tutto evidente che un Nautico senza i principali costruttori di imbarcazioni è un evento monco. Per la serie: la proprietà del logo non garantisce l’avvenire. E un’Ucina principale organizzatore del Salone, anzi unico, comporta esattamente quel rischio, se l’associazione continua ad essere dilaniata da una guerra intestina di cui non si scorgono esiti positivi e che ha portato (spinto?) fuori dal proprio perimetro aziende che rappresentano, malcontato, il sessanta per cento del mercato (sono dieci, fra cui colossi come Azimut e Ferretti). Si può fare spallucce se queste imprese dessero vita a una aggregazione alternativa e concorrente di Ucina (potrebbero anche provare a cambiare le regole di rappresentanza, se ritengono di essere ingiustamente in minoranza rispetto al loro peso specifico), ma se gli stessi soggetti s’inventassero un salone in competizione con quello di Genova allora ci sarebbe da stare molto poco allegri all’ombra della Lanterna.

Ecco perché, al netto di telefonate e contatti diplomatici che si può immaginare siano intercorsi nella turbolenta fase delle ultime settimane (peggio ci si sente se non fosse accaduto), la situazione avrebbe richiesto che il sindaco di Genova Marco Doria e il presidente della Regione Claudio Burlando assumessero delle pubbliche e forti iniziative di mediazione. Pubbliche perché in Ucina gli stracci sono volati alla luce del sole e quindi non c’è alcuna riservatezza da tutelare. Semmai, questa è la classica circostanza in cui il lavoro (eventuale) è inutile che avvenga sotto traccia: renderlo noto è il modo migliore per inchiodare ognuno alle proprie responsabilità.

E queste responsabilità rischiano di essere gravissime: ci sono commercianti, albergatori, baristi, tassisti, insomma intere categorie che a Genova traggono sostentamento dal Salone, uno dei caposaldi nella creazione del Pil della città e della regione. Non ci si può permettere, con una tale posta in gioco, di assistere ignavi o impotenti allo scempio di un patrimonio che affonda le radici nella tradizione e, soprattutto, nelle prospettive di crescita.

La recessione economica ha certamente reso più grave la situazione, le mosse improvvide dei governi (basti pensare alla tassazione introdotta dal gabinetto di Mario Monti) non hanno giovato, come non ha aiutato la drammatica equazione “possessore di barca uguale evasore fiscale”. Tutto l’ambiente, così, è sull’orlo di una crisi di nervi, o c’è finito dentro mani e piedi, ma qui non si parla più soltanto di se e come vuole riorganizzarsi la Confindustria del mare o dei suoi equilibri interni. Qui si gioca con il futuro dei genovesi, non è ammesso voltarsi dall’altra parte. Del resto, per tutto basti ricordare le parole del viceministro all’Economia Carlo Calenda: “Pronto a concedere finanziamenti, ma solo se c’è coesione”. Il denaro che Calenda darebbe è quello degli italiani, compresi i genovesi, e non vuole che sia speso male. Gli si può dare torto?