politica

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Ho partecipato, fin dallo scoppio della rivolta contro Gheddafi, e poi dopo la sua caduta, all’unica esperienza della cooperazione italiana in Libia in quel periodo. Con l’associazione Funzionari senza Frontiere, che presiedo, e altre Ong e associazioni operammo nei centri ortopedici per curare i pazienti feriti di guerra, soprattutto vittime di amputazioni e bisognosi di protesi. Noi volevamo restare per impegnarci nel sostegno al decentramento amministrativo e all’autogoverno locale, che è la nostra “missione”: ma ci trovammo completamente soli, e dovemmo rinunciare. Il Governo italiano si preoccupò solo di difendere gli interessi economici dell’Eni e delle nostre imprese, e non di sostenere la costruzione dello Stato di diritto e della società civile. Eppure, dicono gli studi, è il sostegno alle strutture istituzionali e sociali, ai Comuni, ai corpi intermedi, che riduce la possibilità del riaccendersi dei conflitti di 4/5.

Non dobbiamo avere nessun rimpianto dell’epoca in cui trafficavamo con un dittatore rimasto al potere per più di quarant’anni, che la maggioranza dei libici non sopportava e la cui caduta era inevitabile. Ma dobbiamo ammettere che l’intervento militare del 2011, voluto soprattutto da Sarkozy, si è tradotto in un disastro. Anche per la logica che gli stava dietro: “Battezziamoli democratici e che se la spiccino loro, purché ci liberino l’accesso alle loro risorse”.

Ora, dopo quattro anni di indifferenza, un nuovo intervento armato sarebbe un altro disastro, aprirebbe la strada a una guerra sanguinosa e alimenterebbe ancora di più il terrorismo. Per fortuna Usa, Francia, Italia, Spagna, Germania e Gran Bretagna vogliono giocare la carta della diplomazia e parlano di “impellente necessità di una soluzione politica del conflitto”: “la comunità internazionale è pronta a sostenere pienamente un governo di unità nazionale per affrontare le sfide attuali della Libia”. Giusto: aggiungo che occorre puntare al rafforzamento non solo dell’autorità centrale ma anche delle strutture istituzionali e associative locali.

La posizione occidentale ed europea, fatta propria da Matteo Renzi, ha messo alla berlina le precedenti “sparate” dei Ministri Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti: le loro frasi sono state veramente sciocche e sbagliate. Quella della Pinotti sui “5.000 uomini” non ha alcun senso: che farebbero mai? Anche il paragone con la missione Unifil in Libano non c’entra nulla: si tratta di un contingente inviato d’intesa con i due Stati allora belligeranti, Israele e Libano. In Libia, invece, accordi non ce n’è, ci sono due o tre governi, decine se non centinaia di piccole “repubbliche”, prodotte dall’assetto tribale della società, che si contendono il loro piccolo territorio e il denaro che esce dal petrolio… Forze che vanno disarmate, così come vanno smantellate le mafie dei trafficanti di morte che si arricchiscono con i migranti. Obbiettivi possibili solo con un lavoro di negoziato e di costruzione di un accordo tra le fazioni, cioè con quella soluzione politica di cui ha sempre parlato, inascoltato, Romano Prodi. Insomma, devono tornare la politica e la strategia, che sono totalmente mancate nell’affrontare la questione Libia in questi anni. Politica e strategia che devono puntare al rafforzamento sia dello Stato che della società civile. Quel che serve è un “national building” libico: all’Occidente tocca un cambio radicale di rotta, per sostenere la riconciliazione e la ricostruzione del Paese. Sbagliare ancora sarebbe catastrofico.

Gentiloni e Pinotti, messi da parte gli avventati propositi bellicosi dei primi giorni, hanno certamente letto le parole di Prodi in un’intervista del 13 novembre 2014: “Un’altra guerra? Con chi? Contro chi? In questi ultimi due decenni abbiamo visto così tante guerre, e non hanno risolto niente! Di fronte all’eventualità di un’altra guerra in Libia, si può ricordare l’assioma ‘sbagliare è umano, perseverare è diabolico!’”. Finiremmo come gli americani in Iraq e i sovietici in Afghanistan, ma in un contesto ancora più confuso, senza i mezzi delle superpotenze, con i nostri pochi carri armati, ma con la stessa carenza di politica e di strategia.

L’Isis è un nemico terribile, la dissoluzione della Libia è un dramma e l’inerzia è un pericolo reale: ma ora che abbiamo per fortuna rinunciato all’intervento militare, sappiamo cosa fare? La domanda ne porta con sé un’altra: abbiamo la classe politica all’altezza della sfida?